L’arbitro Maurizio Mariani si racconta
Intervistato dal collega Manuel Gavini de Il Caffè, l’arbitro Mariani si racconta. Arbitro emergente della sezione di Aprilia, tra i migliori della scorsa stagione pronto ad esser protagonista anche in Europa.
«Papà, perché tu non prendi mai la palla?». La chiacchierata con Maurizio Mariani trova lo spunto più tenero in prossimità dei saluti, quando il dialogo si sposta su binari ancor meno formali – percorribili grazie a un’umiltà, la sua, fuori dal comune – e lui stesso ci racconta di quella volta in cui fu accolto così, al rientro a casa, dalla piccola Mia. Fresco di promozione ad arbitro internazionale, il trentasettenne apriliano ha debuttato lo scorso primo agosto nel match tra Maccabi Haifa e Strasburgo, valido per il secondo turno di Europa League. Prima dei successi sportivi, però, a qualificarlo sono soprattutto i valori umani: conosciuti quelli, diventa facile comprendere come abbia potuto raggiungere traguardi di tale portata.
Ricordi la prima volta in cui dicesti “Voglio fare l’arbitro”?
«Avvenne tutto in modo naturale: mio padre, che arbitrava a livello dilettantistico, mi ha trasmesso il dna di famiglia. Il mio percorso fece il resto: avviata a 16 anni la carriera militare alla scuola navale “Morosini” di Venezia, smisi presto di giocare a calcio, ma la voglia di rimanere nell’ambiente era troppo forte. E poi, con la tessera entravo gratis negli stadi!».
Ti arrabbi quando senti i soliti luoghi comuni sugli arbitri?
«I luoghi comuni nascono perché ci conoscono poco. Noi siamo professionisti nel mondo del calcio come tanti altri. Uno dei classici è reputare dedito all’arbitraggio colui che non ha sfondato come calciatore: in certi casi può anche essere vero, ma la questione mi lascia indifferente».
Quando hai pensato che saresti arrivato in Serie A?
«Mai, sinceramente. Ho sempre ragionato step by step, partita dopo partita. Le variabili sono tantissime, fortuna inclusa: meglio concentrare tutte le energie mentali sul lavoro quotidiano».
Dopo la promozione a internazionale hai detto: “Il traguardo è importante, ma è il cammino per arrivarci che ti rimane dentro”.
«È così. Normale che si lavori per raggiungere traguardi, ma è il viaggio a lasciarti le emozioni più forti, quelle dettate dagli errori, dall’esperienza maturata, dal confronto esterno».
Quanto è importante la famiglia nella tua vita professionale?
«Noemi e Mia sono fondamentali, mi appoggiano sempre e mai mi hanno fatto pesare le trasferte lontano da casa, nonostante abbinare due lavori e stare fuori tutti i weekend sia un sacrificio enorme. Capiscono che faccio ciò che mi piace e mi stimolano continuamente, a volte anche troppo: per anni mia figlia ha provato a impormi il colore delle divise da sfoggiare in campo!».
Giochiamo: tra 5 anni la tua carriera da internazionale va a gonfie vele e sei tra i favoriti per arbitrare la finale dell’Europeo, ma la Nazionale è in semifinale… Tifi gli azzurri o “gufi”?
«Rispondere è durissima. Per farlo dovrei prima trovarmi in quella situazione, e già sarebbe un’opportunità enorme. Diciamo che non “guferei”, ma…tiferei per me stesso (ride, ndr)».
Capitolo Var: com’è evoluto, dalla sperimentazione ad oggi, il rapporto con la tecnologia?
«Premesso che provengo da una formazione informatica, e dunque vivo positivamente tutto ciò che contempla innovazione, confesso che all’inizio aleggiava un po’ di scetticismo. Ci si chiedeva, soprattutto, se la tecnologia potesse snaturare troppo il gioco, a svantaggio dello spettacolo. Ma i dubbi sono andati via già durante il primo anno di sperimentazione offline: perché rinunciare a uno supporto oggettivo che, in tempo reale, può pulire una potenziale macchia?».
Cosa provi negli istanti che ti dividono dal monitor, quando sei chiamato alla review?
«La sensazione di sollievo per l’errore evitato è maggiore del dispiacere per averne eventualmente commesso uno: so che a breve potrò contare su uno strumento valido, che aiuterà il mio processo decisionale nell’interpretazione più coerente e uniforme del regolamento».
Pensi sia arrivato il momento, per voi arbitri, di cominciare a parlare a fine partita?
«Negli anni si è visto che il confronto e il dialogo in campo portano benefici. Lo stesso potrebbe avvenire anche fuori, magari a mente fredda, per spiegare decisioni contestate o casi-limite. Se servisse ad aumentare la cultura sportiva si potrebbe sperimentare, a patto che sia regolamentata preventivamente nel dettaglio».
Il principio di territorialità comincia ad essere sdoganato, seppur in casi rari: credi sia arrivata l’ora di abbattere anche questo tabù?
«È una riflessione su cui i nostri dirigenti stanno lavorando. Per quanto mi riguarda, perché no: preparazione e gestione della partita non cambierebbero, anche se dovessi arbitrare una squadra della mia regione».
Anche tu, come molti sportivi, sei accompagnato da riti scaramantici nell’approccio pre-gara?
«Negli anni ho progressivamente eliminato i rituali che mi portavo dietro dagli esordi, ma ammetto di ripetere ancora oggi alcuni gesti che, anche solo per abitudine, mi aiutano nella concentrazione».
Come si ottiene il rispetto da parte di atleti strapagati e di fama mondiale?
«Trattando tutti i calciatori – ma proprio tutti – allo stesso modo. Personalmente interloquisco molto con loro, cercando un dialogo positivo, ma l’aspetto più importante resta sempre l’uniformità».
Il tuo rapporto con i social?
«Non ho profili ufficiali, né account “mascherati”. Ai social preferisco le relazioni umane dirette».
Se potessi cambiare una regola del calcio, dove interverresti?
«Non ci ho mai pensato, ma l’introduzione del tempo effettivo potrebbe aiutare molto: renderebbe vane le perdite di tempo e, di conseguenza, ne gioverebbe lo spettacolo».
Arbitrare nelle categorie minori continua spesso ad essere rischioso, nonostante la Figc abbia recentemente inasprito le pene per i violenti. Ti è mai capitato di essere aggredito?
«Per fortuna non ho mai subito un’aggressione fisica, ma in diverse partite me la sono vista brutta, tra invasioni di campo e minacce verbali. Il provvedimento federale è un enorme passo in avanti, quasi epocale, a tutela di tutti gli arbitri. Ai colleghi più giovani dico di tener duro e non lasciarsi condizionare nei rispettivi percorsi di crescita, pur sapendo quanto sia difficile».
Stephanie Frappart è stata la prima donna a dirigere, egregiamente, una finale europea.
«Ero sicuro avrebbe fatto un figurone. Il calcio femminile è un movimento in crescita ed è giusto dare spazio alle donne, in particolar modo a chi, come lei, ha diretto meritatamente la finale del Mondiale e nei test atletici ha ottenuto risultati in linea con quelli dei colleghi».
Nel calcio italiano, invece, le sezioni laziali sfornano giacchette nere in continuazione.
«È un gran bel vivaio, gestito al meglio da ottimi dirigenti. Non mi sorprende che cinque arbitri laziali militino in Serie A e tre siano diventati internazionali».
Quale grande giocatore del passato ti sarebbe piaciuto arbitrare?
«Roberto Baggio».
In futuro, invece, che partita sogni di dirigere?
«Una di Premier League non sarebbe male, se il regolamento lo consentisse. Da internazionale sogno un derby europeo, magari in finale, come accaduto lo scorso maggio a Rocchi (Chelsea-Arsenal in Europa League, ndr)».
Immagino sia impossibile estorcerti il nome della squadra per cui simpatizzavi da piccolo.
«A me piace molto il tennis… (risata sorniona, ndr). Scherzi a parte, non ce ne sono, a maggior ragione oggi che la carriera mi impone di seguire tutte le squadre con assoluta imparzialità».
ph: Fornelli/Activa