Nasceva il 18 luglio 1942 a Treviglio, nella bassa bergamasca, terra di cui porterà sempre le qualità tipiche: quella “tenacia, affidabilità e l’incapacità di parlare a vanvera” come disse di lui il giornalista Beppe Severgnini, noto tifoso interista, è vero, ma non c’è mai stato bisogno di tifare Inter per riconoscere l’immensità di un giocatore che in punta di piedi ha fatto la storia del calcio italiano e non solo. Unico per eleganza anche nell’impetuoso dinamismo, arcigno ma di rara correttezza (solo un’espulsione in carriera, per un applauso ironico al direttore di gara in un Inter-Fiorentina del 1975), se chiederete ad un qualsiasi nonno italiano chi fosse il “terzino perfetto” vi risponderà “Giacinto Facchetti“. Anche di fronte ad una sovrapposizione di Maldini o un inserimento di Roberto Carlos, sottolineerà sempre come quelle cose le abbia inventate il Giacinto, il capitano, quel carrilero col numero 3 che si è mangiato le fasce sinistre italiane ed europee per tutti gli anni ’60 e quasi tutti gli anni ’70.
Il nerazzurro nel destino: perché se non era Inter, sarebbe stata Atalanta. Viene notato, talentuoso attaccante di provincia alla Trevigliese, da Helenio Herrera nel 1960. Il Mago batte la concorrenza dell’Atalanta e si aggiudica il diciottenne Giacinto, poi gli arretra la posizione. Giusto di qualche metro, dal centro dell’attacco alla fascia sinistra di difesa. E poi? E poi nel maggio 1961 Herrera entra nello spogliatoio della primavera, guarda i ragazzi in piedi di fronte a lui e avverte quel ragazzone con la faccia da bambino “Facchetti? Tu vieni con me a Roma domenica”. Inizia il mito di Facchetti il 21 maggio 1961, quando a Roma deve marcare uno come Ghiggia, al tramonto della carriera sì, ma uno che, per intendersi, ha ammutolito il Maracanà nel dramma sportivo del 1950. Le cronache raccontano di una prestazione non perfetta di Giacinto ma Herrera sapeva di aver trovato la colonna portante della sua Inter negli anni a venire. Gioca altre due partite in quel finale di stagione Facchetti, e segna un gol, perché a lui piaceva segnare, da attaccante nelle giovanili della Trevigliese esattamente come da terzino in Serie A.
Quando Herrera ha deciso una cosa, difficilmente sbaglia. E così Facchetti diventerà cardine, poi colonna, poi stella, quindi leggenda di un’Inter che vinceva tutto. In 634 partite vince 4 scudetti, 2 Coppe Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 1 Coppa Italia. Con le bombe di Jair, la classe di Mazzola, la fantasia di Suarez, il sinistro di Mariolino Corso, la ruvidezza di Burgnich, ma la fascia da capitano era saldamente al braccio di quel numero 3, che un secondo prima sta recuperando un pallone decisivo nella propria area di rigore e magari due secondi dopo sta esultando, con la solita compostezza, magari semplicemente alzando le braccia al cielo, anche se è una semifinale di Coppa dei Campioni contro il grande Liverpool. Lo ha fatto 78 volte in carriera, 75 in maglia nerazzurra, 3 volte in maglia azzurra: record di reti in Serie A per un difensore e primo ad andare in doppia cifra (1965-1966, 10 reti). E anche quando i campioni della Grande Inter passano ed appassiscono, lui rimane sempre lì, da terzino o da libero, fino al 17 maggio 1978 quando saluta e va via, si sfila la fascia da capitano, ringrazia Bearzot per la convocazione all’imminente Mondiale ma declina e si ritira. Però nel ’78 era difficile immaginarsi una Nazionale senza Facchetti dopo circa 15 anni e 94 presenze e allora farà il dirigente accompagnatore, con la consueta umiltà.
La Nazionale, l’altro amore di Facchetti: capitano anche lì perché leader si nasce, eletto unanimemente per doti morali, affronterà da protagonista tutti gli eventi dell’Italia calcistica dal 1963 al 1977. Dall’Europeo vinto in casa nel 1968 (era già lui il capitano, che assistette al lancio della monetina che ci mandò in finale) al 4-3 con la Germania, mettendo la faccia e rialzando(si) anche quando un dentista coreano ci gettò nella polvere nel 1966. Un altro grande capitano, come Cannavaro, lo definì “il capitano dei capitani” e probabilmente aveva ragione: quel Cannavaro che alzò l’unica coppa che Facchetti non ebbe mai la possibilità di sollevare, nel 2006.
E nel 2006 Giacinto ci lascia, in punta di piedi, ma senza mai far morire il ricordo di sé: in ogni sgroppata sulla fascia, in ogni gol di un terzino, nell’incapacità di infastidirsi e perdere la propria determinata mitezza , nell’eleganza, nella classe, nel carisma di un uomo e di un giocatore ci sarà sempre Giacinto Facchetti, il gentilhomme col numero 3 e la fascia al braccio.