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Un fenomeno di nome Michael Jordan

Michael Jordan, il fenomeno

La Treccani alla voce “predestinazione” riporta “prestabilire qualcosa molto tempo prima che avvenga”. Michael Jordan è stato uno di quegli sportivi predestinato a diventare un campione nel basket. Solo in quello, non in nessun altro sport. Ed infatti il numero 23 più famoso dello sport è considerato, non a caso, il giocatore più forte di sempre della storia della pallacanestro mondiale.

Classe 1963, amato e rispettato da tutti, Michael Jordan ha cambiato il concetto di “basketball player” grazie alla sua tecnica, la sua determinazione, la sua abilità dai tiri da due punti, nei rimbalzi, nelle schiacciate ed il fatto di “camminare” sull’aria mentre salta lo ha portato ad avere il suo soprannome più noto: “His Airness”, “Sua Altezza”. Non un titolo reale, ma un titolo fenomenale.

Come ruolo, Jordan è stato una guardia tiratrice dotato di un fisico da corazziere (198×98) nonché veloce, acrobatico e pronto a tutto pur di segnare un punto.

I suoi numeri di maglia furono il 23 ed il 45: il 23 ed il 45 erano legati tra loro, perché il 45 era il numero che usava il fratello Larry per giocare e di cui era ammiratore: diceva fosse fortissimo e lui voleva essere almeno forte la metà di lui (il 23, infatti, è la metà di 45).

Nato a Brooklyn ma spostatosi in tenera età con famiglia ed i quattro fratelli a Wilmington, in North Carolina, il giovane Michael non studiava tanto, era introverso, ma nello sport eccelleva che era un piacere: schiacciava, lanciava forte ed era un buon quarter-back. Jordan poté scegliere se darsi definitivamente alla pallacanestro, al baseball o al football americano, i tre sport nazionali degli Stati uniti. Scelse il basket (anche se ha sempre strizzato l’occhio al baseball).

Negli Stati Uniti d’America, lo sport e lo studio vanno a braccetto: non è un di più come da noi dove ad un certo punto della vita si deve scegliere se continuare solo a giocare o solo a studiare. Sport e studio sono un binomio importante Oltreoceano e Jordan conseguì una borsa di studio per la North Carolina University continuando a giocare in maniera seria e a studiare. Siamo nella seconda metà degli anni Settanta, il basket a stelle e strisce era il migliore al Mondo, ma in Europa era poco seguito se non da fan sfegatati.

Michael Jordan diventò il faro della squadra di basket della sua università nel campionato NCAA (National Collegiate Athletic Association). Grazie a lui, la squadra arrivò due volte in finale nel 1982 e nel 1983, vincendo il titolo il primo anno e perdendo in finale nel secondo. Jordan divenne l’idolo incontrastato di tutta l’università e le sue skill non passarono inosservate.

A 21 anni giunse per lui l’approdo in NBA, la “Serie A” del basket americano. E fu scelto come terzo giocatore al Draft 1984 dopo il nigeriano Hakeem Olajuwon (prima scelta) e l’americano Sam Bowie, assegnati agli Houston Rockets e ai Portland Trail Blazers. Jordan fu conteso da ben tre squadre: i Philadelphia 76ers, Portland Trail Blazers e i Chicago Bulls. Firmò con i “tori” dell’Illinois il 12 settembre 1984.

Si diceva un gran bene di questo ragazzone e si pensava che avesse la strada spianata verso il successo.

Jordan debuttò con i Chicago Bulls il 26 ottobre 1984 contro i Washington Bullets (nome precedente degli Washington Wizards), dove realizzò 16 punti. Alla nona partita contro San Antonio Spurs siglò addirittura 45 punti. La squadra si piazzò terza in Central Division ed uscì subito nei play off di Eastern Conference contro i Milwaukee Bucks. Michael Jordan fu premiato come miglior matricola del campionato (Rookie of the year).

La storia d’amore tra Michael Jordan e i Chicago Bulls durò tredici stagioni, non consecutive: dal 1984 al 1993 e dal 1996 al 1998. In questo lasso di tempo, anche grazie alle imprese di Jordan e dei Chicago Bulls, l’Italia scoprì il basket americano, inchiodando tanti sportivi davanti alla tv a vedere le imprese di quintetti come i Bulls, i Los Angeles Lakers, i Boston Celtic, gli Houston Rockets, gli Orlando Magic e gli Utah Jazz impegnati alla conquista dell’ambito “anello” (il trofeo di chi vince il campionato) in palazzetti sempre pieni.

Grazie alla presenza di Jordan e ad una dirigenza che negli anni investì tantissimo nella squadra, il mondo dei Chicago Bulls cambiò radicalmente: nuovo palazzetto nel 1994, fan in tutti gli USA, fama Oltreoceano ed una serie di quintetti top che hanno reso la franchigia dell’Illinois una delle più forti (se non la più forte) della storia della palla a spicchi. Tipo il quintetto del triennio 1996-1998 con Jordan guardia, Pippen ala piccola, Rodman ala grande, Brown playmaker e Longley centro, con le aggiunte dei “panchinari” Kerr, Kucoc e Harper, capitanati in panchina da Phil Jackson, uno dei migliori coach della storia del basket mondiale.

Con i Chicago Bulls, Jordan vinse sei titoli NBA, di cui due three-peat (due volte il titolo vinto tre volte consecutivamente): nelle 74 stagioni della NBA, oltre ai Bulls, hanno fatto almeno un three-peat i Boston Celtics (vincitori tra il 1959 ed il 1966) e due volte i Los Angeles Lakers (1952-1954, 2000-2002).

Tra il 1984 ed il 2003, anno del suo ritiro, Michael Jordan ha detto “basta” in due momenti distinti e per annunciarli ha organizzato due conferenze stampa: la prima il 6 ottobre 1993, la seconda 13 gennaio 1999. Ovviamente a questi sono succedute anche due conferenze stampa di ritorno: il 18 marzo 1995 (il celebre e conciso “I’m back”) ed il 25 settembre 2001. In entrambi i casi, si ritirò da campione NBA in carica.

Ma per lui il parquet e quel canestro alto 3,05 centimetri da terra sono stati la linfa e la voglia di raggiungere sempre un livello superiore rispetto a quello precedentemente raggiunto. Per questo tornò in campo tra il 2001 ed il 2003 con la squadra in cui aveva investito dal punto di vista manageriale ed economico, i Washington Wizards, come i Chicago Bulls pre Jordan una squadra senza propositi di vittoria dell’”anello”. Per l’occasione tornò sul parquet al minimo salariale e l’ingaggio fu totalmente devoluto in beneficenza. Con Michael Jordan in squadra, i Wizards non si qualificarono per i play off, ma con il quintetto della Eastern Conference riuscì a stabilire un primato: il 21 febbraio 2003, contro i New Jersey Nets, l’asso americano divenne il primo cestista a segnare più di 40 punti in partita a 40 anni di età.

Poi il 16 aprile 2003, la chiusura del sipario: contro i Philadelphia 76ers, Jordan giocò la sua ultima partita e gli fu tributata una lunga standing ovation. Veniva reso omaggio ed un saluto ad un atleta che aveva cambiato il mondo del basket e del marketing sportivo.

Complessivamente, Michael Jordan ha vinto per dieci volte (di cui sette consecutive), la classifica “marcatori”: come lui, solo Wilt Chamberlain.

Il palmares di MJ vede anche cinque vittorie come MVP (Most Valuable Player) della regular season, sei volte MVP delle finals (ovvero le sei finali vinte dai Bulls), una volta miglior difensore e ha preso parte a ben quattordici All Star Games (di cui undici consecutivi), l’evento clou della stagione (finals a parte) dove i migliori cestisti delle due Conference (Eastern e Western) si sfidano in gare singole (schiacciate e tiri da tre punti, su tutte) o in partite fra le stesse Conference e tra due quintetti di rookie.

A oggi, Michael Jordan detiene il record di punti medi a partita (30,12), nei play off (33,45 a partita) e nelle finals (41) ed il 28 marzo 1990, contro i Creveland Cavaliers ha raggiunto il suo top score di 69 punti. Il record di Wilt Chamberlain di cento punti in una partita (stabilito il 2 febbraio 1962 contro i New York Knicks quando “Wilt the Stilt” militava nei Philadelphia Warrios, “progenitori” degli odierni Golden State Warrios di San Francisco) è stato irraggiungibile perfino per Jordan.

Anche in Nazionale, Michael Jordan diede un’impronta devastante: selezionato da coach Knight per prendere parte alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, gli Usa vinsero l’oro in finale contro la Spagna, l’allora nono oro della loro storia. Jordan siglò 17 punti di media.

Ma se si pensa a Jordan, non si può non pensare (e parlare) dell’esperienza del Dream team a Barcellona ‘92: per la prima volta, i professionisti NBA poterono prendere parte all’Olimpiade. Jordan fu capitano e i suoi compagni di squadra erano i vari Pippen, Johnson, Bird, Barkley, Ewing, Malone e Stockton, La vittoria di quell’oro a Barcellona è stato il frutto di una generazione di fenomeni americani che hanno toccato vette di popolarità (e tecnica) mai viste fino a quel momento e anche oggi quella squadra è ricordata come davvero una squadra da sogno. Anche a Barcellona. Medaglia d’oro e distacchi abissali agli avversari.

Jordan fu spinto al migliorarsi sempre e andare quasi oltre ai suoi limiti: voleva diventare il giocatore più forte di sempre e ci è riuscito.

Uomo immagine, uomo copertina e uomo sponsor: questo è stato Michael Jordan. Basta pensare alla sua storica sponsorship con Nike, che proprio grazie ad essere stata il suo sponsor tecnico, ha avuto negli anni un’impennata nei ricavi vendendo il merchandising legato al giocatore, in particolare le sue scarpe che hanno proprio una linea dedicata a lui, ancora oggi vendutissime.

Per non parlare della pellicola della Warner Bros, “Space Jam” del 1996, dove il numero 23 più famoso del Mondo doveva evitare un’invasione aliena guidando una sgangherata squadra di personaggi dei cartoni animati composta da Bugs Bunny, Duffy Duck e Lola Bunny. Si celebrava il ritorno di MJ sui parquet NBA dopo la breve (e poco entusiasmante) esperienza con la squadra di baseball dei Chicago White Sox.

La sua “giocata” più famosa, che lo ha consacrato a “His Airness” è stata il “the move”: contro i Los Angeless Lakers in gara2 delle finals del 5 giugno 1991, Jordan si trovò sul dischetto dei tiri liberi, saltò, un avversario lo marcò stretto, lui si passò la palla dalla mano destra a quella sinistra e segnando un punto spettacolare, lasciando sbigottiti marcatore, Chicago Bulls, Lakers, Phil Jackson e l’allora Chicago Stadium.

Ma se si pensa al mito Jordan, la mente vola all’All star game del 6 febbraio 1988 quando, nella sfida delle schiacciate contro Dominique Wilkins degli Atlanta Hawks, superò sé stesso e la forza di gravità: durante la sfida, Jordan prese la rincorsa da fondo campo e, arrivato nella lunetta, si alzò in volo sembrò che camminasse sull’aria e schiacciò a canestro. Quello è stato il vero marchio di fabbrica di Jordan che nessuno è mai più riuscito ad imitare.

A oggi non c’è un erede di Michael Jordan: sono stati importanti per la storia del basket i vari O’Neil, Bryant, James e Curry, ma di Michael Jordan non ci sarà mai un erede. Non si possono clonare le leggende. Le leggende possono essere (forse) imitate, ma sarebbero scarse imitazioni.

Un po’ come abbiamo provato, nel nostro piccolo, sui campi in cemento delle nostre città a fare il “the move” o camminare sull’aria andando a canestro. Noi non ci siamo riusciti, lui si.

Ed è anche per questo che Michael Jordan, classe di ferro 1963, sarà ricordato come “Dio travestito da Michael Jordan”, come lo aveva chiamato dopo avergli visto fare 63 punti un certo Larry Bird. Era il 20 aprile 1986, Jordan aveva 23 anni e “The Legend” ci aveva visto lungo.

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