Sorrideva sereno, Roberto Mancini, quando gli dicevano che la sua Inter giocava male. Passava oltre e non si infiammava, ben contento degli 1-0 in serie che portavano partita dopo partita i nerazzurri verso un inaspettato primato. Lui, esteta del calcio, incassava le frecciatine dei vari commentatori della domenica sera e sorrideva forte di un’enorme considerazione di se stesso. Le ragioni non gli mancavano, va detto: chiamato da Thohir a risollevare le sorti dell’Inter dopo cinque anni di stenti, ecco che Mancini dopo qualche mese di assestamento sembrava aver centrato l’obiettivo praticamente alla prima occasione, dopo un mercato estivo in cui ogni suo desiderio era diventato realtà. In quel turnover quasi isterico – mai la stessa formazione per due partite consecutive – emergeva tutta la sicurezza di Roberto Mancini che in quel modo lanciava un messaggio chiaro: non importa chi scenda in campo, quel che conta è che in panchina ci sia, appunto, Roberto Mancini.
Handanovic gli dava una grossa mano – spesso due mani in volo plastico – e lui procedeva dritto, fiero della sua squadra anche e soprattutto dopo la sconfitta al San Paolo che aveva messo in mostra paradossalmente la miglior Inter della stagione. Proprio dopo quella gara in tanti sembravano sicuri: sì, l’Inter pareva davvero tornata ai livelli che storicamente le competono. Ciò che è successo dopo ha svelato la carta velina che, evidentemente, reggeva quel castello. E così come era centrale e fondante prima, il ruolo di Mancini non può non esserlo adesso. Da lui e dai suoi atteggiamenti passa la differenza netta tra ll’Inter sicura di sé del girone di andata e quella debole e smarrita dell’ultimo mese. Il turnover intelligente per pungolare e stimolare tutta la rosa si è trasformato in confusione, così come Roberto Mancini non sorride più dopo le partite, anzi. Certo, continua a ripetere che tutti all’Inter avrebbero firmato a inizio anno per questa classifica, ma il ritornello può essere pericoloso preludio ad uno scivolamento progressivo dei nerazzurri lontano dalla zona Champions. Nell’aggressività di Mancini si percepisce qualcosa che non va, a partire dalla bufera scatenata dal tecnico jesino dopo la vittoria in Coppa Italia a Napoli, uno show mediatico che di fatto ha oscurato quella che poteva essere la vittoria del rilancio nerazzurro.
Viene dall’Inghilterra, ha qualità morali altissime e ha ragione: questo dicevano in tanti dopo le accuse a Sarri, mentre nel post derby ecco un dito medio ai tifosi che riporta Mancini alla dimensione di semplice allenatore che perde lucidità quando perde le staffe. E poi le battute sui suoi calciatori che non riescono a fare cose che lui, Mancini, farebbe tranquillamente a 50 anni: sì, è dovere di un tecnico bacchettare i suoi quando necessario, ma quell’uscita è stata dura, troppo netta e da alcuni letta come pericolosa presa di distanze da un gruppo che, forse, non lo segue più come all’inizio. Un inizio durato tanto, alcuni mesi in cui probabilmente Roberto Mancini dall’alto della sua esperienza avrebbe dovuto smorzare gli entusiasmi ed evitare di farsi fotografare insieme alla squadra con la mano sotto il mento e l’hashtag #epicbrozo.
Il mare era calmo, Mancini calmissimo: adesso il mare è in tempesta e quando il mare è in tempesta il timone va tenuto saldamente nell’attesa che passi la bufera. Ma per cercare di riprendere la rotta è necessario che tutti i componenti dell’equipaggio remino insieme nella stessa direzione. Senza dimenticare che per tenere la barra dritta potrebbe servire anche un centrocampista con piedi buoni e visione di gioco.