Il ritorno del Pep

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Guardiola

AL “CAMP NOU” ANDRA’ IN SCENA IL PRIMO ATTO DELLA SUPERSFIDA FRA BARCELLONA E MANCHESTER CITY.

Ci sono partite che valgono più dei tre punti, che trascendono sé stesse. Il pathos, alimentato da personaggi e storie che li hanno come protagonisti, rende tutto più etereo, dall’aura quasi leggendaria.

Ormai, da sette anni a questa parte, la figura elegante e compassata di Josep “Pep” Guardiola trasmette un non so che di unico, di visionario.
Ha imparato insegnando, e mai ossimoro è più azzeccato per descrivere il tecnico che più di tutti sta traghettando il football verso nuovi orizzonti.
I suoi maestri, da Cruyff (scritto alla catalana…) a Van Gaal, passando per Bobby Robson, avevano modalità differenti per trasmettere il verbo del gioco. Lui ha imparato da tutti e tre, così diversi, ma anche molto simili in alcuni aspetti. Li ha assorbiti, per poi rielaborarli a modo suo.

A livello di visionarietà, l’olandese volante, passato da pochi mesi ad altra dimensione, è stato un precursore, come calciatore prima ancora che come tecnico. Ha dato al Barça la filosofia che cercava, dopo le oleografie ibride degli anni precedenti, collegate ad un periodo preciso piuttosto che ad un’ideologia di fondo. Il Barça di Kubala, il Barça di Suarez, lo squadrone delle cinque coppe di Herrera e via discorrendo…

Il calcio del “tiki taka” (termine mai troppo amato dal Pep), è figlio dell’amore per il pallone che Johan Cruyff ha sempre avuto fin dai tempi dell’Ajax; quell’amore che Guardiola a sua volta ha saputo inculcare ai suoi giocatori. Che, sia ben chiaro, avevano già acquisito un “know how” in materia piuttosto esauriente fin dalle loro prime esperienze alla Masia.

Guardiola ha dato una nuova dimensione al concetto di spazio, attaccandolo a velocità siderali, sia nel giropalla che nei movimenti per dettare il passaggio. Il Dream Team di Cruyff aveva dei punti di riferimento, come Julio Salinas; Guardiola, ha trasceso il ruolo del centravanti, con quel “falso nueve” diretto discendente della concezione antica del centravanti di manovra (“alla Hidekguti” si diceva un tempo).

Ha reso attuali le antiche concezioni del calcio, togliendogli lo strato di naftalina che le avvolgeva, per attualizzarle secondo i temi del “barcelonismo” e del calcio 2.0.

Se al Barcellona ha faticato indubbiamente di meno a livello di trasmissione, al Bayern invece ha centrato il suo capolavoro. Ha portato una rivoluzione che non può non influenzare il lavoro dei suoi successori, Ancelotti in primis.
Non ha vinto la Champions, fermandosi sempre a un centimetro dalla grande finale, ma ha reso il Bayern un’altra cosa, non più figlia di quella concezione teutonica del calcio, dove il pragmatismo e l’atletismo avevano la meglio. E’ diventata un’entità più eterogenea, dove la sua identità originaria si è arricchita di nuovi elementi che difficilmente verranno rimossi in futuro.

Adesso al Manchester City prova a centrare qualcosa di leggendario; perchè è vero che vincere in Europa con Barça e Bayern rientra nei canoni, ma il progetto ambizioso della famiglia Al-Nayyan, dopo due Premier vinte, ha bisogno del vaglio internazionale per dare una nuova connotazione al brand (orrore!) dei Citizens. Una Champions vinta col Manchester City assumerebbe i crismi di qualcosa di leggendario, ma il Pep ormai convive pienamente con la sua leggenda vivente.

Un primo risultato lo ha già ottenuto, al di là del primo posto in campionato. E non è tanto la nuova dimensione di De Bruyne, l’inserimento di Nolito, l’esclusione per motivi disciplinari di un monumento come Tourè.
Guardi il City, vedi le facce dei suoi giocatori e non può non notarsi una cosa, purtroppo poco considerata dagli occhi della critica.
I suoi giocatori, giocando in quella maniera, si stanno divertendo di brutto.