Addio a Pino Wilson, il capitano del primo scudetto della Lazio

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Wilson durante la presentazione di un libro, 2018

Wilson, libero e capitano del primo scudetto laziale è morto oggi all’età di 76 anni

Si è spento oggi all’età di 76 anni, Giuseppe Wilson, il capitano della Lazio tricolore del 1973-74.

Ho fatto appena in tempo a vederlo giocare. Uno dei pochi, tra gli eletti del ’74, che ricordo anche oltre le immagini di repertorio, le foto un po’ ingiallite di quando ero piccolo e mio padre mi portava con sé, un giorno sì e l’altro pure, al campo di Tor di Quinto, dove “loro”, quelli del ’74, si allenavano, insieme alle nuove leve che poi, pian piano, avrei imparato ad amare. I reduci di quel sogno, di quella banda di matti che aveva portato in Italia il calcio all’olandese, fuori e dentro il rettangolo verde, erano Garlaschelli, Martini, D’amico, Pulici e lui, Wilson, il Capitano, e badate che la maiuscola non è scappata per errore…

Giuseppe Wilson, nato a Darlington (GB) come recitava il mio album Panini, era un concentrato di classe e tenacia; non era alto ma staccava alla grande e dove non arrivava di testa interveniva in acrobazia, liberando l’area di rigore, della quale era indiscusso ed indiscutibile signore e padrone. In un calcio nel quale usava marcare a uomo e regnava l’uno contro uno, lui era il libero, l’ultimo baluardo prima del portiere, l’ultimo ostacolo da superare per arrivare al tiro.

Capitano in campo e fuori, era il leader silenzioso di quella Lazio, la coscienza occulta di Chinaglia insieme al quale era arrivato dall’Internapoli al tramonto degli anni sessanta, primi e fondamentali mattoni di una casa bellissima e fragile, spazzata via troppo presto, pezzo per pezzo, dal vento di un destino cinico e baro.

Nell’ottanta resta coinvolto, in circostanze mai del tutto chiarite, nel primo scandalo delle scommesse; lui paga con la radiazione, ridotta poi a tre anni di squalifica che lo costringono di fatto a chiudere col calcio giocato. Si autoesilia per quasi un ventennio, restando in silenzio, poi torna a parlare della sua Lazio in radio e televisioni private, sempre con toni pacati ma decisi, senza ipocrisie o servilismi, perché lui, il Capitano, va sempre dritto per la sua strada, non ha bisogno di farsi degli amici tra i potenti e non teme gli avversari, li affronta a viso aperto e testa alta, esattamente come faceva sul campo, pronto a sferrare un tackle decisivo, magari in scivolata.

Nella Lazio gioca in tutto 394 partite, con 8 reti; per 309 volte indossa la fascia di capitano, lasciata soltanto per un breve periodo in favore di Chinaglia. E’ Maestrelli a consegnargli i gradi, riconoscendone da subito il carisma e le capacità da condottiero. In azzurro ha poca fortuna; in quegli anni non è facile farsi strada in Nazionale se non si appartiene agli squadroni del nord ed inoltre davanti a lui ci sono mostri sacri come Facchetti e Scirea; alla fine raggranella appena tre presenze, ben al di sotto di quanto avrebbe meritato.

A lui toccò anche il difficile compito di placare gli animi dei tifosi laziali inferociti per la morte di Vincenzo Paparelli e consentire così di disputare l’incontro come le autorità avevano deciso di fare per questioni di ordine pubblico; le immagini ormai sbiadite di quella maglia numero 4 sotto la curva Nord non le dimenticheremo mai.

Ora riposerà nella cappella della famiglia Maestrelli, accanto al Maestro e a Giorgio Chinaglia.

Un saluto al cielo, Capitano, mio Capitano.