IL ROSSONERO SALUTA LA STAGIONE CON UN GRAVE INFORTUNIO, IL NERAZZURRO VUOLE RECUPERARE IL TEMPO PERDUTO
La parola chiave è “compassione”, viene dal latino “cum pateo”, ovvero “soffro con te”. Ci vuole forza, umiltà e coraggio talvolta per arrivare a coltivare questo stato vitale per certi versi illuminante.
E’ quello che, con modalità differenti, hanno dimostrato di avere due giocatori che finora, sulle due sponde meneghine del calcio, hanno raccolto soprattutto critiche e mugugni.
Riccardo Montolivo è approdato a Milanello all’indomani dell’ottimo Europeo disputato con l’Italia di Prandelli, quella dei muscoli di Balotelli e del cucchiaio di Pirlo. Reduce dalla contraddittoria esperienza fiorentina, il centrocampista bergamasco fin dalla prima seduta agli ordini di Allegri, voleva dimostrare di non essere un mezzo giocatore, mai uscito dal limbo che appartiene a chi avrebbe le doti ma non il carattere per esprimerle.
Fin lì la sua carriera è stata contraddistinta da alti e bassi: ottima tecnica, gran tiro, bravo nel fraseggio breve ma non dategli le chiavi del gioco per carità. Non tiene “cojones” per trascinare un gruppo, per dettare i ritmi di gioco e per inventarsi nuove idee di sviluppo della manovra. Troppo ordinario per essere un 10, troppo bravo per fare il mediano. La posizione di mezz’ala è stata il giusto compromesso trovato da Prandelli a Firenze (e di conseguenza anche in azzurro) per farlo rendere al meglio, e a tratti c’è persino riuscito.
Ma Milano non è Firenze, altro pedigree, altre aspettative; e soprattutto altro Milan, che in quell’estate ha salutato quasi tutta la vecchia guardia, rendendo orfano uno spogliatoio bisognoso di senatori, prima che di piedibuoni. E il suo percorso in maglia rossonera è stato pieno di insidie, con la disapprovazione costante di un pubblico desideroso di vedere “hombres verticales” mentre lui aveva una visione del calcio troppo “orizzontale” per poter entrare nel cuore dei tifosi. Neanche da recuperatore di palloni, grazie al lavoro fatto da Mihajlovic, è servito per fare breccia. Come se quel destro vellutato fosse fin dal principio la sua condanna, invece che la sua arma di redenzione.
Montella, mettendolo in mezzo al campo, lo ha esposto al pubblico ludibrio di chi è incapace di innamorarsi del gregariato applicato al football. C’è fame di vittorie, la nostalgia per i tempi che furono fa sragionare, e il nostro, sostituito dall’imberbe Locatelli, sapeva che per lui ci sarebbe stato parecchio da lavorare. Locatelli segna, piange e fa esplodere San Siro dopo una vittoria miracolosa contro il Sassuolo; lui torna nel limbo per risalire la china.
Poi, in Nazionale, il crack contro la Spagna. E tutto finisce. O forse no, perchè viene fuori il lato mai emerso di Montolivo, che da vero capitano affronta col piglio del leader i soliti guerrieri da tastiera che affollano la piazza dei social, vomitando bestialità e cattiverie gratuite.
E lui risponde con una “carezza” simbolica, quasi a compatire quel vuoto di cultura sportiva che purtroppo caratterizza le chiacchiere da bar e da curva, figlie più di sportivi da poltrona che da spogliatoio.
Idealmente, la fascia di capitano del Milan, Riccardo Montolivo l’ha indossata davvero per la prima volta proprio in quest’occasione.
Marcelo Brozovic, invece, ha peccato per troppo carattere. Facile con quel talento, direte voi. Difficile da inserire in un quadro tattico piuttosto confuso, com’è l’Inter di quest’ultimo lustro, finora la sua avventura nerazzurra è stata un mezzo flop.
Arrivato, come il suo connazionale Kovacic (altro mistero buffo…) con la fama del predestinato, ha finito per impantanarsi nelle pastoie di un progetto di squadra che Roberto Mancini non è stato in grado di tradurre in moneta sonante.
Il buon Marcelo ci ha messo del suo, con quell’indolenza di chi è annoiato dal proprio talento; figuriamoci poi se gli si chiede di correre per fare legna a centrocampo. Pura eresia per questo croato, figlio di una nazione che ha prodotto geni espressi a metà in serie, e quindi non è altro che uno dei tanti che fin qui ha giocato quasi per fare un favore all’allenatore di turno. Magari strappando qualche applauso alla platea, un buffetto del presidente giusto per giustificare la bontà dell’investimento fatto, e poi fine.
Con Franck De Boer si capisce subito che l’aria ha assunto altre fragranze, più acri, meno stantìe. Il progetto dell’Inter in salsa cinese è ad uno stadio embrionale, ma il tecnico olandese, che ha una visione del calcio più umana piuttosto che figlia delle alchimie da lavagna, vuole subito dare un’identità alla sua squadra.
Zero condizionamenti causati da contratti faraonici, disciplina sul campo e regole comportamentali ferree.
Kondogbia ne ha fatto le spese dopo i tragicomici 28 minuti col Bologna, come a dire “Ma chi avete preso?”. Ma ancor più scalpore è il cappello da somaro appioppato al pessimo Brozovic nella serata di Europa League contro l’Hapoel, autore di una prestazione che faceva pendant con la divisa stile Sprite esibita dall’Inter, e culminata col gesto di disapprovazione a reti unificate al momento della sostituzione.
De Boer, da bravo calvinista, non difetta in pragmatismo. Vai dietro la lavagna Marcelo, e rifletti!
Sembra l’epilogo di una storia dai contorni grotteschi, invece dopo circa un mese, fra una vittoria miracolosa contro la Juve e un’altra eurofiguraccia in coppa a Praga, sembra che, forse forse, anche per Brozo si possa scrivere una nuova storia. In nazionale, nelle qualificazioni mondiali, ha sciorinato giocate di gran classe, anche se gli avversari (Kosovo e Finlandia) non erano d’ élite. In un’Inter a caccia di equilibrio in mezzo al campo, un Brozovic più votato al gioco d’assieme, più in sintonia con le esigenze di un tecnico che vuole responsabilizzarne il talento, sarebbe una risorsa in più.