“Mancini? Lo dicono le statistiche europee: quando c’è un nuovo allenatore c’è sempre una scossa che dura 2-3 settimane e poi le cose tornano nella normalità”. L’analisi è di Adriano Galliani, che dall’altra sponda nel Naviglio commenta la svolta manciniana in casa nerazzurra alla vigilia del derby della Madonnina. Parole di un dirigente che raramente ci vede male, parole da cui partire per capire quanto davvero Roberto Mancini potrà invertire la rotta dell’Inter. Già, la domanda è proprio questa: davvero Mancini porterà entusiasmo per qualche settimana e poi i tifosi nerazzurri torneranno a vedere la solita Inter degli ultimi mesi? Che Roberto Mancini abbia un curriculum ben più corposo rispetto a Mazzarri è fuor di dubbio, così come è evidente quanto il Mancio piaccia al popolo interista a fronte di un Mazzarri da sempre sopportato a malapena.
Le nozze coi fichi secchi, però, sono impresa tutt’altro che semplice. E se il Napoli, dopo un inizio stentato, dovesse continuare nella risalita iniziata qualche settimana fa, ecco che il terzo posto – obiettivo dichiarato apertamente da Thohir – diventerebbe assai arduo da raggiungere nonostante Mancini e nonostante eventuali innesti di mercato a gennaio. Per questo il ritorno di Mancini all’Inter va letto con due chiavi di lettura ben distinte: da una parte il campo, oggi, dall’altra il futuro, domani. In questo senso la decisione di Thohir è significativa: Mancini, infatti, ha sempre sposato progetti ambiziosi con ampie garanzie di investimenti. Fu così con Massimo Moratti, che dieci anni fa spendeva e spandeva molto allegramente, fu così al Manchester City, dove al tecnico jesino è stata affidata una rosa stellare, sembrava essere così anche al Galatasaray, che con gli acquisti di Drogba e Sneijder pareva intenzionato a entrare davvero nella cerchia dell’Europa che conta.
Se tanto ci dà tanto, quindi, la scelta di Mancini prefigura un Thohir con tanta voglia di metterci del suo, economicamente parlando, per riportare l’Inter dove merita. Poi c’è il campo e i dubbi non mancano perché Jonathan, Ranocchia, Nagatomo, Medel, Kuzmanovic e compagnia bella non sono Maicon, Samuel, Cambiasso, Vieira, Stankovic e Ibrahimovic. Quella che Mancini trovava nell’estate del 2004 era un’Inter in rampa di lancio, una squadra in cui i problemi erano di sovrabbondanza, un club che acquistava senza esitazioni campioni quali Veron, Chivu, Crespo, Figo, ovvero giocatori affermati e pronti a vincere. Oggi al massimo si può parlare di prospetti interessanti: a parte Handanovic e – se torneranno ai livelli abituali – Palacio ed Hernanes, più che top player nell’Inter ci sono alcuni giovani promettenti quali Juan Jesus, Kovacic e Icardi.
Il pilota può essere un fenomeno, insomma, ma la macchina deve essere competitiva. I maligni, addirittura, citano José Mourinho in quello sfogo dopo una brutta sconfitta sul campo dell’Atalanta: “Uno scudetto l’avete vinto in segreteria, un altro contro nessuno e il terzo stavate per perderlo”. Parole che lo Special One avrebbe pronunciato per scuotere lo spogliatoio, ma se al carico si aggiungono le brutte eliminazioni premature in Champions – Milan, Villareal, Valencia e Liverpool –, è evidente che per Roberto Mancini quella di oggi sia una sfida fondamentale per dimostrare di essere davvero un predestinato e non un raccomandato come piace tanto dire ai suoi detrattori.