Siamo al termine del nostro viaggio tra le Nazionali che si sono fermate ad un passo dallo scrivere la storia del calcio e che sono rimaste invece incompiute.
L’ultima Nazionale ad essere analizzata è quella della Jugoslavia del 1992. Una Nazionale non tanto incompiuta quanto…mai esistita. O meglio, la Selezione balcanica si era qualificata per l’Europeo svedese del 1992, ma per cause di forza maggiore non ha potuto prendere parte a quella manifestazione. E se non ci fosse stata la tremenda guerra civile che portò alla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. magari qualche trofeo internazionale lo avrebbe vinto visto che era chiamata, non per caso, “il Brasile d’Europa”. Ma con i se e con i ma non si fa il calcio…
1992, anno di svolta della Jugoslavia sportiva e non solo
Calcisticamente il 1992 è stato l’anno del terzo Pallone d’oro di Marco van Basten e della Coppa dei Campioni del dream team, il Barcellona di Cruijff. Ma il 1992 è stato anno dell’Europeo e la manifestazione è stata ospitata dalla Svezia che tornava ad ospitare un evento calcistico dai tempi del Mondiale del 1958. Ad alzare la Coppa a sorpresa è stata la Danimarca, che in finale aveva sconfitto la Germania per 2 a 0 dopo aver eliminato in semifinale i Paesi Bassi con Peter Schmeichel che parò un rigore a Marco van Basten.
Si scrisse tanto di quella Nazionale come favola moderna, una cavalcata insperata ed inattesa che ha posto gli scandinavi sulla vetta d’Europa.
Allora alla manifestazione europeo partecipavano otto Nazionali e vi prese parte anche quella della Comunità Stati Indipendenti, “erede” della disciolta URSS. La Danimarca del Ct Richard Møller Nielsen è stata la prima squadra a vincere l’Europeo…arrivando seconda nel girone di qualificazione. Come è stato possibile?
Semplice, la squadra che aveva vinto il girone fu squalificata ed interdetta per motivi di sicurezza non solo dall’Europeo di calcio ma da tutte le manifestazioni sportive di squadra. Gli scandinavi presero il posto della Jugoslavia, dall’anno precedente coinvolta in una guerra civile fratricida che portò, tra il 1991 ed il 1995, alla morte di quasi 100mila persone, decine di migliaia tra feriti e sfollati, il terribile massacro di Srebenica e l’assedio di Vukovar, l’orrore delle fosse comuni ed un Paese che si scisse in sette Repubbliche indipendenti (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Kosovo). I giocatori danesi tornarono anzitempo dalle vacanze e andarono in Svezia, fuori allenamento ed invece da ripescati vinsero la Coppa Henri Delaunay.
Nata nel 1918, la Jugoslavia smise di esistere come la conosciamo il 30 maggio 1992 con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite n. 757 che decretò l’embargo. Soprattutto sportivo, visto che cinquantasei giorni dopo sarebbero iniziate le Olimpiadi estive di Barcellona. Prima l’ONU, la UEFA e poi il CIO decretarono la fine della Repubblica socialista federale di Jugoslavia politicamente e sportivamente.
Molti hanno sostenuto che non è stato giusto che la Danimarca avesse preso il posto della Jugoslavia, ma per il “the show must go on” il calcio doveva andare avanti e gli scandinavi non solo si qualificarono (immeritatamente), ma vinsero (meritatamente) l’Europeo.
Jugoslavia, un bacino calcistico importantissimo
Facciamo un passo indietro al 4 maggio 1980: quel giorno morì Josip Broz (Tito), il leader comunista jugoslavo che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale contro il nazifascismo liberando il suo Paese e che poi nel 1948 si mise di traverso verso l’Unione sovietica diventando un Paese neutrale tra i due blocchi, andando a creare il Movimento dei non allineati. Il Paese balcanico sotto Tito fu un Paese avanzato e molto ricco e nello sport era una potenza. Lo sport di squadra che aveva dato più splendore alla Jugoslavia era la pallacanestro, mentre nel calcio la Nazionale conquistò due quarti posti mondiali (1930 e 1962), due secondi posti europei (nel 1960 e nel 1968), un oro (1960), tre argenti consecutivi (1948, 1952, 1956) e un bronzo nelle Olimpiadi del 1984. E affrontare le squadre di club a casa loro non era una cosa facile.
La morte del “padre della patria” fu deleteria: undici anni dopo quello Stato costituito da sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e due alfabeti sarebbe finito essendo morto il suo collante. Il 25 giugno 1991 la Croazia divenne la seconda repubblica indipendente dopo la Slovenia. Ma a differenza di Lubiana, Zagabria entrò in conflitto contro Serbia Sarajevo in una cruenta guerra civile che coinvolse anche la Bosnia Erzegovina.
Molti pensarono che a subire l’embargo doveva essere la Jugoslavia e non i singoli atleti: a Barcellona, ad esempio, dovevano sfilare tutti gli atleti sotto una bandiera neutrale e non impedire loro di partecipare alla kermesse. Slovenia e Croazia parteciparono sotto la loro nuova bandiera, mentre le altre Nazioni parteciparono sotto il vessillo del CIO come “Partecipanti Olimpici indipendenti”. A Barcellona gli sport di squadra dove la Jugoslavia era in lizza per vincere o l’oro o l’argento erano il basket e la pallanuoto, medaglie che andarono agli Usa e all’Italia di mister Ratko Rudić, nativo di Belgrado.
I “partecipanti” vinsero tre medaglie (un argento, due bronzi), la Croazia tre (un argento, due bronzi) e la Slovenia due bronzi.
Ma il 10 giugno 1992 in Svezia avrebbero avuto inizio gli Europei di calcio e l’1 giugno la Nazionale allenata da Ivica Osim ricevette la notizia: esclusione dal torneo in base alla risoluzione numero 757. La Nazionale jugoslava dovette partire dal Paese scandinavo, dove era in ritiro, e tornare a casa: era la fine di quello che era chiamato il “Brasile d’Europa”, la squadra nazionale che giocava il calcio migliore del Continente con dei giocatori dal carisma e dalla tecnica sopraffina.
Molti giocatori di quella squadra tre anni prima avevano visto la Jugoslava vincere il Mondiale Under 20 in Cile nel 1987 ed avevano partecipato a Italia ’90 nel Mondiale dove la squadra fu eliminata solo ai rigori dalla Germania Ovest poi vincitrice del torneo. Due nomi su tutti in Cile: capitan Robert Prosinečki e Davor Šuker, premiati come miglior giocatore del torneo e secondo nella classifica marcatori ad solo gol dal vincitore, il tedesco occidentale Marcel Witeczek. La spedizione jugoslava in Sudamerica passò quasi inosservata dai media, in parte per lo scarso interesse e perché la squadra era partita per il Cile senza alcuni giocatori importanti tra infortuni e divieto di partecipazione in quanto sarebbe stato meglio se avessero continuato a giocare nelle loro squadre di club. Stiamo parlando di gente che scriverà la storia del calcio europeo negli anni Novanta: Aleksandar Djordjević, Igor Berecko, Dejan Vukicević, Igor Pejović e Seho Sabotić, Sinisa Mihajlović, Vladimir Jugović ed Alen Bokšić.
Nonostante dal 1988 il Paese entrò in crisi (sociale ed economica), il calcio riuscì a tenere unito il Paese. Il clou della crisi si ebbe allo stadio “Maksimir” di Zagabria, teatro del caldissimo match fra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado con gli scontri tra le due tifoserie e il famoso calcio di Zvominir Boban al poliziotto che stava malmenando il tifoso. Il centrocampista fu squalificato e perse il Mondiale italiano. Ma il dado era tratto. Il Paese aveva le settimane contate.
Nel 1991 la Stella Rossa sconfisse in finale l’Olympique Marsiglia a Bari ai rigori. A dicembre vinse l’Intercontinentale. Quella squadra aveva in rosa talenti spettacolari come Savićević, Pančev, Jugović e Mihajlović (che giocarono anche in Italia) e Prosinečki che giocò con il Real e con il Barcellona. C’erano macedoni, croati, serbi e montenegrini. Dopo di allora, nessun’altra squadra dell’ex Jugoslavia non solo vinse la coppa dalle grandi orecchie ma riuscì ad arrivare in fondo.
La Jugoslavia si qualificò (quasi) a mani basse per l’Europeo: otto partite, 14 punti, 24 reti fatte e 4subite. La Danimarca, seconda, era staccata di un solo punto.
Ma facciamo un passo indietro al 1990, come visto anno del Mondiale italiano.
Italia ’90, l’ultimo Mondiale della Jugoslavia
La Jugoslavia si qualificò per il Mondiale italiano vincendo il proprio girone con quattordici punti, staccando di quattro punti la Scozia seconda (e qualificata anch’essa) e di cinque la Francia, semifinalista nei due Mondiali precedenti.
Non fecero parte di quella spedizione Boban squalificato per sei mesi, ma c’era il meglio del calcio balcanico: da Tomislav Ivković a Predrag Spasić, da Davor Jozić a Dragan Stojković, da Dejan Savićević a Robert Jarni fino a Darko Pančev, Srečko Katanec e Davor Šuker.
La compagine balcanica venne inserita in un gruppo tosto, il D, con Germania ovest, Colombia e Emirati Arabi Uniti. La Jugoslavia passò il girone come seconda con quattro punti in due vittorie (Colombia e EAU, 1-0 e 4-1) e una sconfitta (Germania ovest, 4-1).
Negli ottavi cadde la Spagna con una doppietta di Stoijkovic a Verona e nei quarti a Firenze dovette affrontare i campioni del Mondo uscenti dell’Argentina. E la partita del “Comunale” fu epica: slavi in dieci uomini dopo mezzora di gioco e fu una delle più belle del torneo.
Al 90′ e al 120′ il risultato fu fisso sullo 0 a 0 e la semifinalista sarebbe uscita dopo i calci di rigore. Che furono altrettanto epici: Stojković colpì la traversa, Serrizuela segnò, Prosinečki segnò, come fece Burruchaga. Savicević segnò mentre Maradona incredibilmente sbagliò. Brnović si vide parato il rigore e Troglio prese il palo. Goycoechea parò il gol di Hadžibegić ed il cremonese Dezotti superò Ivkovic e porto l’Albiceleste in semifinale.
Quella fu l’ultima partita della Jugoslavia in una manifestazione europea. Solo un rigore sbagliato in più degli avversari pose fine ai sogni di glori di quella squadra.
Sugli spalti, come niente, sventolarono le bandiere della Jugoslavia “unita”.
Euro ’92, dalla gioia alla disperazione. La risoluzione 757 delle Nazioni unite
Il marzo 1992 è l’anno della fine della Jugoslavia come la si conosceva sui libri di storia e geografia.
A dicembre 1991 finì il girone di qualificazione a Euro 1992: Jugoslavia qualificata con un punto di vantaggio sulla Danimarca. I gol fatti furono ben 24, le reti subite furono solo quattro con il futuro macedone Pancev capocannoniere non solo del girone, ma di tutte le qualificazioni. Tra le papabili per la vittoria, la Nazionale di Ivica Osim era tra le candidate.
A quel torneo parteciparono otto squadre. La squadra balcanica fu inserita nel girone A con i padroni di casa, la Francia di Cantona e l’Inghilterra di Shearer. I giocatori jugoslavi dovettero tornare di corsa a casa e vedersi l’Europeo da casa per colpa di una guerra fratricida voluta da persone spregiudicate e criminali di guerra.
I giocatori danesi crearono un fondo di solidarietà per le popolazioni colpite dalla guerra civile, ma ciò non bastò.
Nel frattempo in Jugoslavia c’era il caos ed il Mondo conobbe la ferocia di “Arkan”.
Con la guerra, terminata solo nel 1995, ci fu la diaspora dei giocatori verso i campionati europei. Chi non partì per l’estero rimase nella martoriata ex Jugoslavia a combattere il nemico (che fino a pochi mesi prima era suo amico) o scappare all’estero per evitare le bombe.
Il momento che segnò un’epoca: il calcio del giocatore croato al poliziotto serbo
Il 13 maggio 1990 l’incontro Dinamo Zagabria-Stella Rossa terminò per le intemperanze dei “tifosi” e la brutalità della polizia. Una ginocchiata di Boban al volto di un milite costò al croato il Mondiale italiano e fu tra i presupposti del conflitto che dissolse la Jugoslavia.
Può una ginocchiata di un calciatore a un poliziotto essere tra le cause dello scoppio del conflitto che ha insanguinato l’Europa tra il 1991 ed il 1995? Sì, se parliamo di Jugoslavia e del match tra le due squadre più blasonate del paese balcanico, la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa Belgrado. Quel giorno lo stadio della Dinamo, il “Maksimir”, ospitava un match ininfluente per la classifica in quanto la Prva Liga era già per la diciassettesima volta della Stella Rossa. Allo stadio erano presenti circa 20mila spettatori, più che tifosi vi erano due rappresentanze etniche e militari: da una parte i Bad Blue Boys, i caldi tifosi di Zagabria di stampo ultra-nazionalista e guidati dal Franjo Tudjaman, dall’altro la Delije, la frangia estrema dei supporter della Stella Rossa capeggiati dal Zeljko Raznatović, meglio conosciuto come Tigre Arkan.
La squalifica che scattò ai danni di capitan Boban compromise la sua partecipazione al Mondiale in Italia in programma il mese successivo. La storia di “Zorro” poi è nota a tutti: campione d’Italia e d’Europa con il Milan e leader della Croazia che nel 1998 arrivò terza in Francia.
Il gesto del centrocampista di Imoschi divise l’opinione pubblica: i croati lo considerarono eroico (era l’unico non tornato negli spogliatoi ma rimasto in campo a difendere “la sua gente”), i serbi di cattivo gusto da parte di un calciatore (il poliziotto colpito era serbo), un segnale nazionalista. Tredici mesi dopo iniziò la guerra jugoslava. Affermare che la ginocchiata di Boban abbia originato il conflitto sarebbe esagerato, ma la si può inserire nella serie di episodi che hanno portato la Jugoslavia al dissolvimento.
Uno dei rivoltosi del match del “Maksimir” è stato Zeljko Raznatovic, noto come Arkan, uno dei protagonisti più tristemente noti del conflitto che scoppiò il 27 giugno successivo. Arkan, che era allo stadio con un cucciolo di tigre (da qui il suo soprannome), usò le tifoserie calcistiche del Paese per arruolare militanti e guerriglieri ai fini delle sue operazioni militari violente e cruenti. Era il trionfo dei nazionalismi e del calcio usato come valvola di sfogo di un Paese prossimo al baratro: da sempre ispirato alle tifoserie italiane e britanniche, ancora oggi il calcio croato e serbo vede lo stadio tempi della violenza fine a sé stessa.
A partire dal 1992, Boban, insieme ad altri colleghi come Vladimir Jugovic, Dejan Savicevic, Darko Pancev, Robert Prosinečki, Davor Šuker e Pedrag Mijathovic lasciarono la loro terra per cercare e trovare fortuna nella serie A italiana o nella Liga Spagnola. Lontani da casa, ma sempre con il cuore rivolto alla loro terra. La celebre foto di Boban va a pieno titolo negli annali della storia del calcio.
Ma qualcosa nella Jugoslavia non funzionava da tempo. Al “Maksimir”, durante l’amichevole pre Mondiale tra la Jugoslavia ed i Paesi Bassi, dagli spalti iniziarono cori contro la Nazionale jugoslava ed in favore degli olandesi. Peccato che da Amsterdam fosse partiti pochi tifosi olandesi: i cori dei tifosi sugli spalti erano tutti di matrice jugoslava contro una Nazionale che non li rappresentava più.
L’ultima partita della Nazionale jugoslava con calciatori di sei Stati diversi fu quella di qualificazione all’Europeo svedese del 16 maggio 1991 contro le Far Oer: quella fu l’ultima partita con i giocatori croati.
Il 12 settembre 1990 iniziarono le qualificazioni a Svezia 1992: vittoria 2 a 0 contro l’Irlanda. Ultima partita il 13 novembre 1991, 0 a 2 al “Prater”: Jugoslavia in Svezia, Danimarca a casa. Ma una risoluzione ONU cambiò poi le carte in tavola.
I giocatori simbolo: il genio, il cecchino delle punizioni, l’eroe del “Maksim”, i fenomeni di Villingen-Schwenningen e Niš, il “bidone” interista
In una Nazionale che chiamavano “Brasile d’Europa” è difficile trovare il giocatore più forte, ma ci si può provare.
Il principale è stato Dejan Savicević. Montenegrino di Podgorica, Savicević è stato considerato uno dei giocatori jugoslavi più forti della sua generazione. Regista con un’intelligenza tecnica come pochi, è stato il faro della Stella Rossa campione d’Europa a Bari e uno dei protagonisti nella vittoria nella semifinale contro il Bayern Monaco. Se divenne mitico con la maglia numero 10 della Stella Rossa, Savicević divenne ancora più forte quando passò al Milan nell’estate 1992. In sei stagioni, vinse tre titoli nazionali e soprattutto la Champions ad Atene contro il Barcellona di Cruijff: leggendario è stato il suo pallonetto che superò Zubizarreta nel momentaneo 3 a 0. In quella partita Savicević dimostrò al Mondo di essere un grande giocatore. Chiuse la carriera in Austria dopo un breve parentesi con la “sua” Stella Rossa. E’ il Presidente della Federcalcio montenegrina.
Se Savicević era il genio in campo, Sinisa Mihajlovic è stato altrettanto “geniale” nelle punizioni: su 63 segnate in Serie A, ventotto furono segnate da palla inattiva (44%). E le sue punizioni sono state anche studiate all’Università. Difensore centrale con abilità anche da centrocampista, oggi è un buon tecnico anche se il suo palmares da tecnico è vuoto.
Il Milan nel 1992 si assicurò dalla Dinamo Zagabria l’eroe del “Maksim”, Zvominir Boban. “Zorro” fu girato al Bari per una stagione per poi tornare alla base e diventare il faro del centrocampo del Milan degli invincibili. Trequartista dotato di buon tocco e dalla grande visione di gioco, dall’eleganza e dall’efficacia di un top player, è stato uno dei protagonisti della Croazia terza a Francia 1998 insieme agli ex compagni (jugoslavi) Robert Prosinečki, Davor Šuker e Robert Jarni. Laureatosi in storia dopo la fine della carriera (chiusa al Celta Vigo), Boban intraprese una fruttuosa carriera di opinionista calcistico e dal maggio scorso è vice-Presidente della FIFA.
Furono altrettanto fenomenali Robert Prosinečki e Dragan Stojkovic. Nati rispettivamente a Villingen-Schwenningen e Niš, Prosinečki e Stojković furono i due calciatori allora più mediatici della Nazionale slava ed entrambi presenti nella vittoria del Mondiale Under 20 cilena. Prosinečki si affermò prima con la Dinamo Zagabria, ma è con la Stella Rossa che divenne un giocatore internazionale. E tre il 1991 ed il 1996 giocò con Real Madrid e Barcellona con alterne fortune con una parentesi ad Oviedo e a Siviglia. Tornò poi in Croazia dove tra il 2000 ed il 2004 cambiò cinque squadre. Rimane l’unico giocatore ad avere segnato in due Mondiali con due Nazioni diverse (Jugoslavia nel 1990, Croazia nel 1998). Dal 2014 allena la Nazionale dell’Azerbaigian, dopo essere stato per quattro anni vice-Ct della Croazia, per due anni tecnico della Stella Rossa e una stagione dei turchi del Kayserispor.
Se Gheorghe Hagi era chiamato il “Maradona dei Carpazi”, Dragan Stojković lo fu dei Balcani. Centrocampista così avanzato faceva l’attaccante aggiunto, cresciuto nella Stella Rossa, lasciò Belgrado nella stagione post Mondiale e con l’Olympique Marsiglia, la sua nuova squadra, arrivò fino alla finale di Coppa dei Campioni. Il destino volle che l’avversario fosse proprio la Stella Rossa. Il match andò ai rigori e Stojković si rifiutò di calciare il rigore, se non lo avesse segnato i suoi tifosi non glielo avrebbero perdonato. Al Mondiale italiano segnò la doppietta con cui eliminò la Spagna negli ottavi, mentre nei quarti, da capitano, sbagliò il rigore nella lotteria contro l’Argentina. Dopo una parentesi di un anno all’Hellas Verona, fece altre due stagioni con l’Olympique per poi chiudere la carriera in Giappone. Attualmente è il tecnico dei cinesi del Guangzhou, ma l’ex numero 10 jugoslavo allena in Cina dal 2008, iniziando con il Nagoya Grampus con cui vinse il titolo nazionale nel 2010. E proprio dalla panchina segnò da oltre quaranta metri, in giacca e cravatta, per calciare la palla che gli arrivò per caso a gioco fermo: il suo gesto atletico “casuale” è ancora oggi cliccatissimo su YouTube.
Chi deluse le attese fu Darko Pancev: da vincitore di tutto nel 1991 (campione di Jugoslavia, d’Europa con rigore decisivo e del Mondo con la Stella Rossa, vittoria della Scarpa d’oro e secondo a pari merito con Savicević e Mattheus nel Pallone d’oro) a clamoroso “bidone” di mercato dell’Inter, dove in tre stagioni non consecutive realizzò solo dieci reti. L’unica consolazione la prese nel 2004 quando la Federcalcio macedone lo nominò “Golden player”, miglior giocatore della storia del calcio della Macedonia.
Cosa rimane di quella squadra?
Nel 2003 il nome Jugoslavia è stato cancellato dagli atlanti geografici. Era terminata la storia di un territorio da sempre complicato, difficile, infuocato, passionale e controverso.
Dal punto di vista sportivo, non furono mai più toccate le cime della Jugoslavia pre guerra civile.
Calcisticamente, nelle coppe europee tra il 1991 e i giorni nostri i migliori risultati delle squadre balcaniche sono stati molto modesti: in Champions League l’Haiduk Spalato si è spinto fino gli ottavi nel 1995; in Coppa delle Coppe i croati del Varteks Varaždin hanno raggiunto i quarti di finale nell’ultima edizione della manifestazione, mentre in Coppa Uefa/Europa League il Croazia Zagabria e il Partizan Belgrado si sono spinti fino agli ottavi tra il 1998 ed il 2005.
Per il resto, nulla più: buoni talenti che giocano nei loro Paesi solo quando gioca la loro Nazionale.
Ma quel 1992 sarebbe stato calcisticamente jugoslavo.
Per nostra fortuna, tra il 1980 ed il 1991 nella nostra Serie A abbiamo avuto il privilegio di veder giocare molti dei talenti di quella Nazionale che avrebbe dato filo da torcere alle avversarie e che nelle nostre squadre di club erano titolari inamovibili ed idoli dei tifosi.
Spiace dirlo, ma si può affermare che quella Jugoslavia oltre a non essere mai esistita, è anche incompiuta visto che il calcio slavo da allora non fu mai all’altezza. Come dire: invece di fare 31 dopo trenta, il calcio balcanico rimase con il cerino in mano come lo studente che a casa ha studiato approfonditamente per l’interrogazione del giorno dopo, ma che per vari motivi il giorno dopo non va scuola.
“C’era una volta una Nazionale che poteva, ma a cui hanno impedito di essere una squadra storica e da ricordare negli annali”. Alla fine, la storia di Stojković, Prosinečki, Boban, Savicević è stata una bella favola. Interrotta sul più bello.
Questo è stato l’ultimo “undici” della Jugoslavia sceso in campo allo stadio x contro i Paesi Bassi nell’amichevole del 25 marzo 1992, terminata 2-0 per gli orange
Omerovic (Bosnia-Erzegovina); Brnovic (Montenegro); Vujacic (Montenegro); Hadzibegic (Bosnia-Erzegovina); Stanojkovic (Macedonia); Najdoski (Macedonia); Bazdarevic (Bosnia-Erzegovina); Jugovic (Serbia); Stojkovic (Serbia); Savicevic (Montenegro); Kodro (Bosnia-Erzegovina)
Per quella partita, non ci furono giocatori sloveni, croati e macedoni.