9, il centravanti
Chi a scuola prendeva un nove in pagella era forse il più bravo della classe, ma non era il migliore, in quanto il migliore prendeva dieci, la perfezione. Matematicamente parlando, il nove è frutto di tre volte tre, tre volte il numero perfetto: nove sono i mesi di gestazione di un figlio nella pancia della mamma; nove erano le muse e nove nella smorfia napoletana è “la figliolanza”. Nel calcio, invece, il nove diventa cardinale, si trasforma in 9 e da sempre rappresenta il numero di quello che “deve fare gol”, l’attaccante principale, la prima punta, il bomber.
9 IL NUMERO PERFETTO
Il calcio è pieno di numeri 9 che hanno fatto la storia di questo sport, che hanno scritto pagine di giocate, magie e gol spettacolari. A dire il vero, ci sono stati più 9 che 10, ma un conto è fare gol ed un altro è fare il fantasista. Fisicamente, il 9 è l’opposto del 10: alto, forte fisicamente e capace di usare sia il piede che la testa, nel senso di “gol di testa”.
Come per i numeri 10, anche i numeri 9 sono divisibili in decenni calcistici e anche in questo caso, fare classifiche è sempre una cosa difficile, soprattutto con un ruolo dove tutti, a scuola, nei campi dell’oratorio, al parchetto con gli amici o nel campo sterrato di periferia dicono “palla lunga a me ed io la metto dentro”. Il numero 9 è presuntuoso per natura, il 10 no. Lui usa i piedi e ragiona (sul come dare la palla), il bomber deve essere freddo e segnare. Punto.
A livello italiano, il primo numero 9 è stato senza dubbio Silvio Piola. Nato a Robbio nel 1913 quando il calcio, almeno nel nostro Paese, stava piano piano uscendo dalla fase pionieristica, Piola è stato implacabile, capace di essere ancora oggi a 62 anni dal suo ritiro (avvenuto nel 1954 ad 41 anni) il giocatore con più reti in Serie A, con Pro Vercelli, Lazio e Novara. Ancora oggi è il calciatore che ha segnato più reti in Serie A, con 274 gol. Francesco Totti è da tempo che sta provando almeno ad eguagliarlo, ma difficilmente supererà quel record. Alla sua memoria, le città di Novara e Vercelli, distanti una ventina di chilometri ma da sempre rivali, hanno dedicato i propri stadi cittadini dove giocano le due squadre con cui il campionissimo di Robbio ha militato. Parlare di Piola significa parlare di un calcio non solo in bianco e nero, ma anche radiofonico visto che quando giocava lui la televisione non esisteva ancora. Era un calcio dove i numeri di maglia erano da poco stati introdotti (lo furono dal 1937 in Inghilterra, due anni dopo in Italia) e gli atleti non erano impomatati come quelli attuali. Giocatore molto umile, Piola dovrebbe essere studiato nelle scuole calcio nazionali, se non discutere una tesi di laurea.
Se Piola era il top del calcio italiano tra gli anni Trenta e Quaranta, Alfredo di Stefano lo è stato negli anni Cinquanta. Soprannominato la “saetta bionda” (saeta rubia), il nome di di Stefano è imprescindibilmente legato a quello del Real Madrid dellamanita di Coppe dei Campioni vinte consecutivamente. Idolo dell’allora “Nuevo Estadio Chamartin”, di Stefano, argentino di Buenos Aires, ha iniziato a giocare con due squadre della capitale argentina (il River Plate e l’Huracan), per poi andare a giocare in Colombia nel Millonarios di Bogotà e sbarcare in Europa nel 1953. Doveva andare al Barcellona, ma il dittatore spagnolo Francisco Franco, tifoso merengues, si oppose e costrinse l’allora presidente madridista Santiago Bernabeu a portarlo nella capitale a scapito della Catalogna. Con la camiseta 9, la “saeta rubia” giocò undici stagioni, segnando qualcosa come 307 reti in quasi quattrocento partite, vincendo tutto. Si è pensato di ritirare la sua maglia, ma dal suo ritiro il 9 blanco è andato sulle spalle di attaccanti molto importanti (Davor Suker, Fernando Morientes, i due Ronaldo e ora Karim Benzema, ma prima di loro Hugo Sanchez, Santillana ed Emilio Butragueno, quando la 9 non era fissa).
Degno di nota è stato anche l’ungherese Nándor Hidegkuti, contemporaneo di di Stefano, attaccante principe del MTK Budapest e faro della Aranycsapat, la Squadra d’oro allenata da Gusztáv Sebes capace di vincere trentadue partite consecutive tra il 4 giugno 1950 (0 a 2 alla Polonia) ed 4 luglio 1954, vincendo un oro olimpico, ma perdendo la finale mondiale contro la Germania Ovest proprio quel giorno.
Passando ai Sessanta, il numero 9 per antonomasia è stato Robert Charlton, mentre nel nostro Paese ha dettato legge Gigi Riva, anche se giocava con la maglia numero 11.
Charlton è stato capitano dell’Inghilterra Campione del Mondo in casa nel 1966, nonché uomo-immagine per anni del Manchester United, diventando la nemesi di George Best. Scampato al disastro aereo del 1958 a Monaco di Baviera (dove perirono sette suoi compagni di squadra, tre membri dello staff tecnico, otto giornalisti e quattro membri dell’equipaggio), “Bobby” era il capitano dei Red Devils che alzarono la Coppa dei Campioni nel 1968, seconda squadra britannica a riuscirci nonché prima squadra inglese e vinse il Pallone d’oro nel 1966. Dopo aver lasciato lo United, giocò in piccole squadre e non intraprese seriamente il ruolo dicoach. Chissà quanti insegnamenti avrebbe potuto dare ad altri striker inglesi…
GIGI RIVA, IL 9 MADE IN ITALY
Gigi Riva invece in Italia è ancora oggi un mito vivente. Varesino di nascita ma cagliaritano di adozione, “rombo di tuono” è l’emblema dell’attaccante completo che ha segnato con regolarità e ha fatto impazzire i marcatori di turno. Faro del Cagliari scudettato di Manlio Scopigno, ha fatto innamorare un’isola intera per tredici stagioni, vincendo anche per tre volte la classifica marcatori. Il suo legame con il Cagliari è stato così forte da rifiutare sempre le offerte (sostanziose) che arrivavano al Presidente Corrias da parte delle squadre del Nord, preferendo difendere i colori rossoblu piuttosto che altri. Recordman ancora oggi di marcature con la maglia azzurra, un infortunio lo costrinse al ritiro anticipato, ma a tutti rimarranno impressi le reti nell’Europeo casalingo del 1968 ed il gol del momentaneo 3 a 2 nella semifinale contro la Germania dell'”Azteca”. Il club cagliaritano nel 2005 ha deciso di ritirare la “11” in suo onore. In onore di quel ragazzo arrivato da Leggiuno e che ha portato la Sardegna sul tetto dell’Italia calcistica.
I Settanta in Italia non hanno visto primeggiare nessun bomber in particolare: Chinaglia, Anastasi, Bettega, Pulici&Graziani sono stati i punteri italiani di riferimento, capaci di far vincere alle loro squadre scudetti e classifiche cannonieri, ma in Europa il 9 indiscusso è stato Gerd Muller.
Muller fu il faro dell’attacco del Bayern Monaco capace di vincere ben tre Coppe dei Campioni consecutive in quel decennio, nonché trascinatore della Nazionale tedesca che vinse in due anni Europeo e Mondiale tra il 1972 ed il 1974. Poteva ricevere almeno due Palloni d’oro (magari anche tre o quattro), ma sulla sua strada ha trovato prima Johan Cruijff, poi il compagno di squadra Franz Beckenbauer ed infine Kevin Keegan. Ironia della sorte, nessuno di questi aveva la 9.
La Germania ha avuto altri numeri cannonieri di spessore (da Horst Hrubesch a Rudi Voeller, da Jurgen Klinsmann a Miroslaw Klose), ma nessuno ha mai eguagliato ciò che ha fatto il ragazzo di Nördlingen. Sopratutto in Bundesliga, dove Mueller detiene il record di marcature e difficilmente sarà eguagliabile nel breve periodo. Muller è stato capace di segnare in campionato per cinque volte almeno trenta reti ed in sette più di quaranta “tutto compreso”. Insomma, numeri da prima punta vera. Verissima.
A partire dagli anni ’80 il calcio è cambiato, si sono aperte le frontiere, il calcio è entrato prepotentemente nelle case degli italiani ed da quel momento i “bar sport” il lunedì mattina si sono animati contemporaneamente di tifosi sfegatati e fruitori di caffè senza competenza calcistica, ma che devono dare il proprio parere per forza.
DA PRUZZO A VAN BASTEN
In Italia, in quel decennio, il numero 9 era Roberto Pruzzo, in Europa (e nel Mondo) Marco Van Basten. Cosa ebbero in comune “‘o rei di Crocefieschi” ed il “cigno di Utrecht”? Il senso del gol.
Tra i due, Pruzzo è stato quello più sfortunato, nonostante abbia vinto tre volte la classifica marcatori, diventando nel contempo l’idolo di Genoa e Roma. Il bomber della Roma scudettata non fu convocato per il Mundial spagnolo, in quanto Bearzot gli preferì Altobelli (altro gran bel numero 9) e lui non digerì l’esclusione.
Pruzzo è la quintessenza del bomber implacabile: non di stazza imponente, baffo anni 70 e oltre duecento gol in carriera per un giocatore taciturno, ma concreto sotto rete. Da qualche anno si è dato all’opinionismo sportivo, ma attaccanti “alla Pruzzo” mancano come il pane, almeno nel nostro Paese.
Marco Van Basten è stato invece un giocatore universale, il sogno di ogni bambino che si avvicinava al calcio: “da grande voglio diventare come Van Basten”, sognando di diventare come il “cigno di Utrecht”. Esploso nell’Ajax, Berlusconi lo portò nel suo nuovo Milan e, con i connazionali Ruud Gullit e Frank Rijkaard, è stato la punta di diamante dei “tulipani olandesi”. Con la maglia rossonera, van Basten vinse scudetti, due Coppe dei Campioni e Coppe Intercontinentali consecutive, due classifiche marcatori e tre Palloni d’oro, al tempo eguagliando mostri sacri come Cruijff e Platini, nonché una Scarpa d’oro vinta ai tempi dell’Ajax. Con la maglia orange ha vinto da protagonista l’Europeo tedesco del 1988. Attaccante elegante e raffinato, univa una tecnica eccezionale ad una precisione sotto porta fuori dal comune. Le sue caviglie malandate hanno posto fine alla sua carriera a soli 29 anni. Ha tentato la strada della panchina, ma i risultati non sono stati fantastici come quelli da giocatore.
Non è stato come Van Basten, ma un altro attaccante di spessore che ha indossato la maglia 9 negli anni Novanta è stato Gary Lineker. Classe 1960, ovunque abbia giocato ha fatto vedere sempre cose eccezionali: dall’Everton al Barcellona, al Tottenham, l’attaccante di Leicester ha vinto poco a livello internazionale e qualcosa a livello nazionale, vincendo la classifica marcatori del Mondiale 1986 (primo e finora unico inglese a riuscirci) con una selezione che si era fermata ai quarti, ma contribuendo quattro anni dopo a portarla ad un quarto posto incredibile, con l’attaccante allora militante negli Spurs, che chiuse la classifica marcatori ad un rete dal capocannoniere Toto’ Schillaci.
VIALLI E VIERI
I Novanta in Italia sono stati gli anni di Gianluca Vialli e Christian Vieri, mentre a livello internazionale il Mondo del calcio ha assistito alle gesta di due giocatori formidabili e che hanno fatto sognare i tifosi di Inter e Fiorentina, Ronaldo “il fenomeno” e Gabriel Omar Batistuta.
Questi ultimi hanno giocato in serie A ed entrambi hanno fatto sognare lo scudetto ai propri tifosi. Ronaldo ballava sul pallone ed era velocissimo, Batistuta spaccava la rete ed usava la mitraglia. Ronaldo ha incantato il Mondo, Batistuta ha fatto molto per farsi conoscere e ha avuto, diciamo, meno fortuna del ragazzo di Rio de Janeiro.
Ronaldo era il fenomeno, Batistuta il re leone. Ronaldo ha avuto per un anno la 10 e poi la 9, Batigol a Firenze era il 9 per antonomasia, ma a Roma si è dovuto “raddoppiare”. Rasato il primo, capellone il secondo; due volte Pallone d’oro e decisivo in una finale di coppa del mondo uno, zeru tituli per l’altro.
BATISTUTA E RONALDO IL ‘FENOMENO’
A differenza di “Batigol”, il “fenomeno” ha avuto dalla sua la mediaticità, la pubblicità e la fama. Batistuta tecnicamente magari non era eccelso, ma aveva un senso del gol ed una forza sotto rete fuori dal comune, tanto da aver segnato trecento gol in carriera. Ma nel calcio i titoli non sono tutto, visto che Ronaldo ha patito infortuni e situazioni che l’argentino non ha avuto.
Che sfide tra i due quando militavano in Italia. Beati i tifosi che li hanno visti giocare con le loro maglie.
Tra un Batistuta ed un Ronaldo, l’Italia ha avuto, come detto, in Gianluca Vialli e Christian Vieri i propri arieti nell’ultimo decennio del XX secolo.
Entrambi partiti dalla provincia (Cremonese; Venezia ed Atalanta), si sono consacrati in bianconero (Vialli ha alzato l’ultima Champions juventina; Vieri dopo la sua parentesi a Torino è diventato un giocatore globale), ma ai Mondiali hanno avuto esperienze negative (brutto il Mondiale italiano per l’allora giocatore sampdoriano, pesa come un macigno il gol sbagliato sotto porta contro la Corea del Sud da parte di Vieri, nonostante in due manifestazioni iridate abbia segnato nove reti). Forte tecnicamente il cremonese, forte fisicamente il toscano, si sono consacrati in grandi piazze, entrambi hanno giocato all’estero (Vialli ha aperto le danze del “Chelsea degli italiani”, Vieri ha vinto il “Pichichi” al primo colpo in Liga) ed entrambi hanno vinto la classifica marcatori in Serie A. Ora fanno anche loro gli opinionisti, anche se Vieri fa anche tanti selfie nel tempo libero.
Gli anni Duemila sono gli anni di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo: il primo è un 10 puro, il secondo è un 9 che gioca con la 7. Siccome i due giocatori di Barça e Real fanno una classifica a se stanti, gli anni Duemila sono il decennio di una Prima Punta con la P maiuscola, Zlatan Ibrahimovic.
RE IBRAHIMOVIC
Natali svedesi, ma cuore e sangue slavo, “Ibra” è il top dei numeri 9 europei attualmente in circolazione: forza, tecnica, colpi di genio (con il tacco o con rovesciate), il parlare di sé in terza persona, scudetto e gol garantiti a fine stagione…ma niente Champions a maggio. Eh si perché Zlatan Ibrahimovic ha vinto titoli e coppe nazionali a iosa, ma non ha mai vinto la coppa dalle grandi orecchie. E non perché abbia giocato in squadre “deboli”: l’anno dopo che ha lasciato Inter e Barcellona, queste hanno vinto la Champions. Eppure è l’unico ad aver segnato nella coppa più importante con sei squadre diverse, tutti top team. Paragonato a Marco van Basten, Ibrahimovic non ha mai digerito il grosso paragone: le movenze sono simili, il ruolo idem, ma l’olandese quando c’era da essere decisivo, lo era, mentre lo svedese rischia di essere ricordato come un bomber…incompiuto, visto che sta volando verso i 35 anni. Ma il prototipo-tipo del fan di “Ibra” vuole vederlo giocare e segnare gol incredibili, anche se non alza trofei.
In Italia gli anni Dieci di questo inizio di secolo hanno regalato il talento di Mario Balotelli, ma hanno anche fatto conoscere un attaccante come Graziano Pellè, bomber d’esportazione: in Olanda ha fatto bene, al Southampton sta facendo altrettanto e vista la penuria di prime punte, Conte potrebbe portarlo in Francia e dargli la maglia numero 9 della Nazionale, appartenuta in passato a gente come Chinaglia, Tassotti e Scirea (eh sì), Ancelotti, Toni e Vieri. Finora non ha tradito le attese, ma non si è mai confrontato in tornei internazionali. “SuperMario” ha trascinato l’Italia in finale ad Euro 2012, ma da allora è stato più sopra le righe che in campo ed ora deve darsi una regolata e tornare “in careggiata”.
A livello italiano splendidi interpreti della parola “numero 9” sono stati Filippo Inzaghi, Cristiano Lucarelli, Luca Toni, e nel loro piccolo, Dario Hubner, Andrea Caracciolo e Raffaele Rubino. All’estero, tra i tantissimi, sono degni di nota Andrij Shevchenko, George Weah, David Trezeguet, David Villa e ora Robert Lewandosky, Raheem Sterling, Sergio Aguero e Luis Suarez.
Chissà fra venti anni come saranno i numeri 9. Lo sapremo solo vedendoli giocare ed esultare ad ogni loro gol, sperando che segnino ai nostri avversari.