Ci sono squadre che segnano un’epoca e che rivoluzionano un sistema. Ci sono giocatori che spezzano il corso della storia tra un prima e un dopo di essi, tra l’antico e il moderno, il vecchio e il nuovo. Ci sono gruppi che fondano delle identità.
Tra le tribù del calcio ce n’è una che ha fatto la storia dell’Italia, dell’Europa e del mondo. È quella degli olandesi del Milan, il trio orange Rijkaard, Gullit e Van Basten. Per capire la portata straordinaria del loro arrivo in Serie A bisogna però fare un passo indietro, un flash back. Arrivare ai primi mesi del 1980, quando il Milan di Felice Colombo viene spazzato via dallo scandalo del Totonero. Prima retrocessione in Serie B, decisa a tavolino, radiazione del presidente. Poi il ritorno tra i grandi e di nuovo la retrocessione, stavolta sul campo. Buio pesto. Poi lo spiraglio di luce. È il 20 febbraio 1986 che inizia la storia del Grande Milan. Silvio Berlusconi, allora semplice seppur ricchissimo imprenditore milanese, rileva la società, ripiana il deficit economico e apre le porte al futuro.
Ci mette solo due anni a portare in panchina il giovane Arrigo Sacchi, che l’anno prima aveva eliminato i rossoneri guidando il Parma, allora in serie cadetta. Ci mette lo stesso tempo per portare Marco van Basten, pagato 1.75 miliardi di lire. Il Cigno di Utrecht è reduce da 128 reti con la maglia dell’Ajax, con i rossoneri ne segnerà altre 90. Ma un solo olandese non poteva bastare, così Berlusconi mette di nuovo mano al portafogli. Stavolta escono 13.5 miliardi, per quello che sarà ribattezzato “Simba” da Gianni Brera. Una criniera di dreadlocks neri, un “cervo che esce di foresta” per Vujadin Boskov, che lo allenerà alla Sampdoria, “un toro, più brutale che tecnico” per il più forte dei suoi avversari, Diego Armando Maradona. Il trio fu completato l’estate successiva da Frank Rijkaard, anche lui scuola Ajax, anche lui pagato suon di miliardi, 5.8 per l’esattezza.
Il Milan degli olandesi e di Arrigo Sacchi fu un terremoto per un calcio, quello italiano, ancora stretto e ossessionato dal catenaccio, devoto al contropiede. Quella squadra, forte dei suoi fenomeni, giocava seguendo armonie e ritmi, favole e poesie. Vinse tutto quello che c’era da vincere. Galli, Tassotti, Baresi, Costacurta, Maldini, Rijkaard, Ancellotti, Donadoni, Evani, Gullit e Van Basten.
Scudetto, Coppe Campioni, Supercoppe, Intercontinentali. Una macchina perfetta, un organismo vitale, un mosaico in cui ogni tassello era fondamentale, unico, irripetibile. Gullit portava i muscoli, la corsa inesauribile, il fisico d’acciaio. Rijkaard metteva ordine, dettava il ritmo, orchestrava i movimenti. A van Basten restava l’eleganza, il colpo cinico del genio, il tocco dell’artista. Erano loro i perni dell’undici titolare, che si muoveva come un giocatore unico, un blocco sia in fase difensiva che in quella offensiva. Trappola del fuorigioco e pressing asfissiante. Difesa a zona, sincronia tra le linee, recupero di palloni rapido e straripante.
Fu sempre il trio rossonero a guidare i Tulipani sul tetto d’Europa, in Germania, nel 1988. Una finale dominata contro l’URSS. I gol, neanche a dirlo, furono di Gullit e Van Basten.