Pensare alla Parigi – Roubaix è pensare a tutti quei campioni che hanno reso mitica ogni singola pietra del pavé più famoso del mondo. E’ pensare ad ogni impresa che ha reso unica la regina delle classiche o come direbbero i nostri cugini transalpini, l’enfer du nord.
Parigi – Roubaix, un’affare da uomini duri: Tafi e Ballerini
Quando penso alla Parigi – Roubaix penso al mio conterraneo Andrea Tafi. Un corridore che normalmente aveva la professione del gregario, ma che quando incontrava le pietre della classica francese si esaltava. Nel 1996 fu fermato per ordini di scuderia. Aspettò i compagni Bortolami e Museeuw, arrivando in parata nel velodromo di Roubaix, ma con l’ordine categorico di tagliare il traguardo per 3°, tutelando il blasone del belga e la classifica di coppa del Mondo di Bortolami. Nel 1998 si inchinò alla potenza, classe e fantasia del compagno di squadra Ballerini, proteggendone la fuga e arrivando 2° ma staccato di ben 4′. Un’enormità. Alla fine nel 1999 è riuscito, tagliando il traguardo in lacrime, a portare in terra di Toscana quella pietra che è il simbolo del trionfo nella classica del pavé per eccellenza.
Quando penso a Roubaix non posso che pensare all’immenso Franco Ballerini. Il Ballero è stato il prototipo del corridore perfetto sulle pietre francesi. Non pedalava, danzava. Non avanzava, galleggiava. In qualunque situazione climatica, che fosse fango o polvere, freddo o calura, il Ballero trasmetteva alla trasmissione della sua bici una potenza che fendeva l’aria delle campagne francesi e si posava con sublime efficacia sullo sconnesso fondo stradale. Ballerini ha vinto due volte a Roubaix. Dominando, incantando, lasciando tutti senza fiato e parole. Eppure io di Franco mi ricordo la beffa di Duclos-Lassalle, portato a spasso nella campagna francese dalla generosità del Ballero. Ogni volta che si girava per chiedere un cambio vedeva il francese soffiare in una smorfia di sofferenza, dando l’impressione che avrebbe mollato da un momento all’altro, settore di pavè dopo settore. Duclos-Lassalle scuote la testa e non da neppure un cambio a Ballerini, facendo capire che per lui il podio nel velodromo è già un grandissimo risultato. Franco gli crede. E continua spingere. A guadagnare tempo su un gruppo di 7 uomini che inseguono tra i quali spiccano i nomi di Ludwig, Museeuw e Van Der Poel. Nel velodromo di Roubaix si consuma quella che verrà ricordata per sempre come la “beffa di Duclos-Lassalle” con il francese trascinato al traguardo che sprinta e batte ballerini al fotofinish. Ballerini finisce in lacrime, minacciando dopo quella corsa di lasciare il ciclismo. Di pietre nella sua bacheca ne finiranno addirittura due. L’altro ricordo di Franco è quello con la maglietta sbottonata e la faccia piena di fango, e la t-shirt bianca su cui campeggia la scritta “Merci Roubaix”, attaccata col ferro da stiro la sera prima dalla moglie. E’ il 2001, è l’ultima corsa di Franco Ballerini, è il suo saluto alla gara che l’ha reso leggenda.
Vai Gianni, sei insieme ai grandi!
Quando penso alla Parigi – Roubaix penso ad un’edizione balorda, spostata a ottobre, 19 mesi dopo la precedente edizione. Penso alla Roubaix 2021 che nasce, si sviluppa e finisce senza padroni e senza calcoli. Una corsa spregiudicata, di altri tempi.
Una giornata da tregenda in cui la pioggia ha lasciato un pò di tregua, dopo essere morta copiosa nelle fessure delle stradine di campagna francesi. La conclusione è due ruscelli d’acqua ai bordi di ogni tratto di pavè, la parte centrale della carreggiata ricurva a schiena d’asino e mossa in superficie da uno strato melmoso che rende improponibile anche la semplice sgasata di un corridore professionista. Succede che il povero Kung va prima in fuga e poi a terra. Non una, non due, ma ben tre volte. Succede che nessuno vuol controllare la corsa e allora si avvantaggiano in 35. Subito. Quando ancora i tratti di pavé sono spettri che non vedi neppure da lontano ma che sai che dovrai sconfiggere per forza. Quando dopo circa cento chilometri la strada muta e diventa passerella in mattoncini per trattori agricoli, i 35 si perdono per strada come cavalieri sconfitti dalla battaglia. I volti eclissano i lineamenti, incrostati dal fango sputato dalle ruote di chi precede. Le moto che riprendono la corrida sbandano, e sembrano reggersi per caso sull’equilibrio folle di questa giornata. Il gruppo si dimena e scema. Davanti ogni qualvolta la strada torna a diventare ghiaia, troviamo un ragazzone trentino, spesso criticato e spesso effettivamente criticabile. Gianni Moscon non è uno qualunque. E’ stato spesso uomo di Froome nei trionfi in giallo del keniano bianco. Moscon ha un motore potente e spregiudicato come spesso lo è stato lui in corsa. Ha tanta personalità Gianni, tutta quella che piaceva all’ormai ex CT Davide Cassani, che aveva per lui sempre un ruolo di prim’ordine nella sua squadra nazionale. Gianni corre per la INEOS. E correre lì significa spesso dover sudare per qualcun’altro. E’ un ruolo duro quello del gregario, soprattutto quando sai di poter dare e avere di più. Ti cerchi le occasioni. E Gianni Moscon qualche occasione se la ritaglia. Vince due campionati italiani a cronometro, alcune corse minori, fa podio al Lombardia ed è sempre protagonista nelle classiche del nord. A fine stagione andrà via, come Nibali, raggiungerà l’Astana, dove spera di poter avere lo spazio che crede di meritare.
E quando al chilometro 20 di questa Roubaix vede i compagni Rowe e Hayter scattare per raggiungere un bel gruppo che si sta formando non ci pensa due volte. Abbassa due denti alla catena e di potenza raggiunge il drappello in tre pedalate. Dietro il gruppo sbuffa. Sa che questo tentativo può essere pericoloso e on concede terreno. Davanti i gregari della fuga macinano sulle leve delle guarniture e concedono ai loro capitani 3′ da difendere quando ce ne sarà bisogno. Gianni è lì. E che nessuno oggi si provi a dirgli quello che deve fare. I chilometri passano e arriva finalmente il pavé. Gianni si mette ogni volta davanti. Sa che non si possono prender rischi, meglio imprimere il proprio ritmo e restarsene fuori dai guai. E il ritmo è un forcing che fa male a molti. Anche i suoi due compagni inglesi alzano bandiera bianca. Superati i 200 chilometri davanti restano in 5 e dietro cominciano a muoversi i big. Colbrelli anticipa perchè sa che non reggerebbe alle accelerate furiose dei grandi del pavé. Van Der Poel abbassa la testa e spara ogni volta che vede la nebbiolina d’acqua che si alza dalle pietre avvolte dal fango. Altro pavé e altri chilometri che passano sotto le ruote ormai irriconoscibili dei corridori. Tante statue di fango, come i minatori belgi d’inizio novecento. Van Der Poel cambia la bici, rientra in gruppo e non si tiene. La livrea del suo destriero è candida a confronto di quella degli altri. Lui la spreme come fosse una spada da brandire. Van Der Poel se ne va, e uno ad uno molla la compagnia di tutti. Resta solo il povero Lampaert. Alla fine dirà che forse oggi era il più forte di tutti. Forse. Ma siamo a Roubaix e finisce per forare tre volte e dire addio ad ogni bellicosa speranza. Van Der Poel piomba su Colbrelli e continua a spingere un gruppetto che poco a poco diventa sempra più minuto. Davanti Gianni Moscon non perde occasione per frustare i compagni di fuga ad ogni misero metro di pavé. E se ne va da solo. Gianni Moscon è in testa alla Roubaix, mancano cinquanta chilometri e ne ha già percorsi all’attacco duecento. Un’impresa che se andasse in porto sarebbe l’elogio alla follia di un ciclista. Moscon spinge e guadagna, inizia a crederci davvero. Sulle poltrone di mezza Italia tutti i tifosi guardano sbigottiti quell’intercedere affinato di un uomo, solo in mezzo alla campagna, che con gli occhi pieni di fango e le mani avvolte dal gelo sta andando incontro al suo destino nella corsa più bella del Mondo. Mancano trenta chilometri e il copione è scritto. Gianni Moscon contro tutti. E tutti ormai sono un gruppetto di cinque corridori alle sue spalle. Circa un minuto e spiccioli dietro. Le energie sono finite da un pò, si va avanti di spalle e con l’inerzia dell’impresa. Meno venti e dietro iniziano a non crederci più. Non guadagnano e i chilometri passano.
La voce di chi commenta inizia a comprendere che siamo di fronte a qualcosa di grosso. Poi la telecamera svolta. Inquadra una ruota posteriore che lentamente si abbassa e porta il cerchio a toccare il terreno. E’ una foratura. E’ proprio Gianni Moscon. Il trentino non tentenna e continua a spingere una velocità folle per quelle condizioni di gara e di mezzo tecnico. Attende la sua macchina. Arriva e lo rimette in sella a tempo record. Il cronometro si ri-aggiorna. Ha perso circa 30″. Adesso ha meno di un minuto da difendere. Le radioline degli altri traboccano di grida. I predatori sentono la scia di sangue della preda ferita. Gianni non smette di crederci e pedala, pedala, pedala più forte. Tanto forte che qualche chilometro dopo sente quella ruota posteriore scivolargli via da sotto. In un attimo lo sguardo è verso il cielo plumbeo del Belgio. Il gomito e il fianco sono sul duro dei sassi. Lo sgomento traspare, ma è un istante prima di rimettere le ruote in verticale e continuare a sperare. E’ ancora davanti. Ma dopo ogni curva il gruppetto dietro lo vede lontano. Ne sente l’odore. Ne percepisce la paura. A dieci chilometri dal velodromo la Roubaix di Moscon finisce. Van Der Poel sgasa e gli passa vicino, Colbrelli attacca e lo lascia sul posto.
Una delle più grandi imprese del ciclismo moderno finisce a poco, pochissimo dall’apoteosi. Finisce per una gomma a terra e per una scivolata sul pavé. Ma dopo oggi, quando ripenserò alla Parigi – Roubaix penserò anche a Gianni Moscon e a quell’impresa sfiorata. Vai Gianni, sei nella leggenda.