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Football Legend, Roberto Mancini

Roberto Mancini, una carriera da incorniciare

Qual è il sogno di chi gioca a calcio? Vestire i colori della propria Nazionale. Il top? Giocarci e magari poi allenarla. Giocare e allenare la Nazionale, una cosa capitata a undici persone nei 120 anni della storia del nostro calcio: da Carcano a Ferrari, da Bernardini a Bearzot, da Cesare Maldini a Zoff, da Trapattoni a Donadoni, fino Conte e di Biagio. E poi all’attuale Commissario tecnico, Roberto Mancini. Mancini ha vestito l’azzurro trentasei volte, segnando quattro reti e partecipando ad un Europeo e ad un Mondiale di calcio. Nominato “cittì” al posto del traghettatore di Biagio lo scorso maggio, il “Mancio” a oggi, prima del debutto dell’Italia il prossimo 7 settembre contro la Polonia nella prima giornata del girone 3 della Lega A di UEFA Nations League, si è seduto sulla panchina azzurra tre volte: vittoria 2-1 contro l’Arabia Saudita, sconfitta 3-1 contro i futuri Campioni del Mondo della Francia, pareggio 1-1 contro i Paesi Bassi. Per il tecnico di Jesi, un ruolo delicato ed importante: far risorgere il nostro calcio il più avanti possibile nella UEFA Nations League, qualificarlo a Euro 2020 e poi al Mondiale qatariota del 2022. E visto che su di lui c’è tanto hype, lo spazio “Football Legend” è dedicato proprio all’ex numero 10 di Sampdoria e Lazio.

Innanzitutto, Roberto Mancini appartiene alla famiglia di quelle persone che si vedeva già in campo che un giorno avrebbe fatto l’allenatore. Mancini è il miglior allenatore italiano? Al momento sì, sennò non si spiegherebbe perché la Federcalcio lo avrebbe scelto: l’uomo giusto per smaltire il post-Ventura e la mancata qualificazione a Russia 2018. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa è stato il “Mancini giocatore” prima ed il “Mancini allenatore dopo”.

Marchigiano di Jesi, il “Mancio” nasce nel 1964 in pieno boom economico e sin da piccolo è attratto dal calcio. Ed è forte, molto forte tanto che nel 1977 fece armi e bagagli e si spostò di 220 km a nord verso una città (e quindi una squadra) che lo farà conoscere al nostro calcio: Bologna.

Mancini arrivò tredicenne sotto le due Torri e lasciò la città felsinea nell’estate Mundial del 1982. In quei cinque anni, Mancini salì tutti i gradini del settore giovanile, arrivando nel 1980 a far parte in pianta stabile della Primavera ed il 13 settembre 1981, a diciassette anni ancora da compiere, mister Burgnich lo gettò nella mischia in un Bologna-Cagliari. Il giusto riconoscimento verso un ragazzino che in allenamento si impegnava con dedizione perché aveva deciso che da grande avrebbe fatto ciò che voleva fare da piccolo: il calciatore professionista.

Mancini quella stagione (la 1981/1982) non fece bene…di più: trenta partite giocate, nove reti segnate. Lo stesso numero di reti segnate anche da gente del calibro di Virdis, Beccalossi, Bertoni, Graziani e Schachner. Non male per un ragazzo che a nell’anno mundial avrebbe compiuto diciotto anni. La sua prima rete in massima serie avvenne contro il Como al “Sinigaglia” negli ultimi dieci minuti di gioco e fu il gol del 2-2 finale ed ancora oggi (nel 2018) sono in pochi gli Under 20 ad aver segnato così tanto in un una singola stagione di Serie A.

Tutti iniziarono a parlare di questo ragazzino con il piede destro magico e con un’intelligenza tattica e tecnica pari ad uno con almeno dieci-quindici anni di più di lui. Fatto sta che però il Bologna retrocesse per la la prima volta in Serie B ed il giovane Mancini non seguì la squadra in cadetteria ma si spostò sul mare, a Genova, per vestire la maglia di una squadra che fino ad allora aveva ottenuto come miglior posto in Serie A un quarto posto più di venti anni prima e che in Europa non aveva mai giocato una partita, se non in competizioni ora non più ufficiali: la Sampdoria del presidente Paolo Mantovani. Mantovani spese 2 miliardi di lire di allora per portare sotto la Lanterna doriana l’Under 20 più forte d’Italia. Decisiva fu la presenza in casa Samp di Paolo Borea come direttore sportivo, uno che conosceva molto bene Roberto Mancini.

Mancini rimase a Genova fino all’estate 1997, scrivendo una pagina importantissima nel club doriano: 566 presenze, 173 reti e la vittoria dello storico scudetto del 1991, oltre alla vittoria di quattro Coppe Italia e della Coppa delle Coppe del 1989. Per non parlare della sfortunata finale di Wembley di Coppa dei Campioni contro il Barcellona “Dream team” di Cruijff solo nei tempi supplementari. Con Mancini in campo, la Samp arrivò un’altra volta in finale di Coppa delle Coppe (contro il Barcellona nel 1989), di Supercoppa europea (contro il Milan nel 1990) oltre ad altre due finali di Coppa Italia e tre di Supercoppa italiana tra il 1986 ed il 1994. Insomma, una delle squadre più forti di quel periodo.

Una squadra molto forte quella Sampdoria: da Pagliuca a Cerezo, da Vierchowood a Lombardo, da Mannini a Pellegrini e Katanec sotto la guida del mitico Vujadin Boskov. Ma se si parla di quella Samp, la mente va ai “gemelli del gol”: Gianluca Vialli e Roberto Mancini, i due trascinatori di una squadra perfetta che scrisse una pagina bellissima (e forse irripetibile) di calcio non solo sotto la Lanterna, ma anche in Italia. Fu proprio Mancini a convincere Vialli a lasciare l’amata Cremonese e la natia Cremona nell’estate 1984 per salpare sul mar Ligure. Del resto, i due si conoscevano per via delle convocazione di Vicini in Under21 e il loro legame fu sempre forte.

Lo stesso Mancini era diventato più forte e non solo perché era diventato più maturo: allenandosi e giocando con elementi di spessore, non poteva che migliorare e diventare ancora più forte. E giocare in una piazza tranquilla ma appassionata come quella della Sampdoria non poteva che fare del bene al giovane “Mancio”.

Mancini, numero 10 sulle spalle, fece vedere del grande calcio, diventando uno dei fantasisti più importanti tra gli anni Ottanta e Novanta. Un vero maestro del ruolo ed un vero fantasista al pari di Roberto Baggio e Giuseppe Giannini , ritenuti allora il top con il numero della “perfezione”.

Ma come tutte le favole, anche la love story Mancini-Sampdoria terminò. E insieme al talento marchigiano, piano piano lasciarono tutti Genova per altri lidi. Il grande sogno della Samp terminò prima a Wembley e poi (anche) il 14 ottobre 1993 giorno della morte di Paolo Mantovani.

Mancini non seguì il “fratello” Vialli alla Juventus, ma accettò la proposta della Lazio dove vi rimase fino all’estate 2000.

I tre anni laziali sono stati il top del “Mancini calciatore”, ancora di più degli anni sampdoriani. Sotto i Colosseo biancoceleste, Mancini giocò 136 partite, segnò ventiquattro reti (fantastico il gol di tacco contro il Parma al “Tardini”) e vincendo in proporzione più che con la Samp. Anche perché il presidente laziale di allora, Sergio Cragnotti, voleva la Lazio sul tetto d’Italia e possibilmente d’Europa. Si seppe che il patron laziale aveva bruciato la concorrenza di Massimo Moratti per portare Mancini all’Inter.

Aveva 32 anni Mancini, si pensava fosse in fase calante e c’erano molti dubbi su di lui, sulle sue motivazioni e sul suo impegno. Nulla di più sbagliato: il “Mancio” si prese il numero 10 ed in tre stagioni fu determinante per la squadra capitolina nel vincere in tre anni uno scudetto che mancava da ventisei anni, due Coppe Italia (la prima dopo trent’anni), una Supercoppa italiana e poi una Coppa delle Coppe ed un Supercoppa europea. Mancini era la punta di diamante di una squadra che in quel triennio riuscì ad arrivare alla posizione numero 1 del ranking UEFA.

Nell’estate 2000 Roberto Mancini decise di ritirarsi e affiancò Eriksson in panchina, ma la voglia di calcio fu più forte e nel gennaio 2001 firmò un contratto di sei mesi accettando un’offerta importante da parte di una squadra che oggi è molto considerata in Premier League, ma che allora non era per nulla un top team: il Leicester City. Dopo quella risibile esperienza (cinque partite, zero reti), decise di lasciare il calcio già a febbraio e fare ciò che gli piaceva di più fare in campo, ovvero allenare.

Ma prima di affrontare il tema “Mancini allenatore”, c’è da toccare il tasto dove Mancini si può considerare un incompiuto: il suo trascorso con la Nazionale italiana maggiore. Come detto, Mancini è un baby boomer e alla fine degli anni Ottanta il calcio italiano era ricco di ragazzi nati tra il 1958 ed il 1966. Ergo, la concorrenza era tanta. Mancini ebbe la sfortuna (ma fino ad un certo punto) di giocare contemporaneamente con tanti altri colleghi, solo che in Nazionale deluse sempre (e di parecchio) le aspettative.

Mancini debuttò in Nazionale maggiore il 26 maggio 1984 in Canada durante una tourné degli azzurri contro la Nazionale nord-americana e gli Stati uniti, mentre la sua ultima partita fu il 23 marzo 1994 contro la Germania. La grande delusione fu il Mondiale italiano del 1990, dove doveva essere la stella del centrocampo. In sette partite, Mancini non giocò mai una partita, chiuso da Giannini, de Napoli, Berti e dagli strabordanti Baggio e Schillaci. Il “Mancio” ebbe più fortuna con la Nazionale Under 21, che con lui si piazzò terza e seconda gli Europei 1984 e 1986 in Inghilterra e Spagna dove fu anche il capitano.

Tornando alla sua carriera di allenatore, Roberto Mancini a fine febbraio 2001 ebbe una grandissima occasione: allenare “da solo” una squadra di Serie A. L’occasione gliela diede la Fiorentina per sostituire Fatih Terim. La squadra non andava bene e l’allora Presidente Vittorio Cecchi Gori decise di esonerare “l’Imperatore” per fare spazio al giovane Mancini. L’AssoAllenatori di spaccò: perché dare una panchina importante ad un allenatore senza esperienza e senza patentino? No problem, deroga e Mancini poté allenare e vinse subito la Coppa Italia contro il Parma, perdendo poi la finale di Supercoppa italiana contro la Roma scudettata.

Da quel momento, Roberto Mancini si è imposto come uno dei tecnici italiani più interessanti, capaci e vincenti di questi anni Duemila. Dopo la Viola, allenò per due stagioni una Lazio in crisi economica (2002-2004), l’Inter in due tranche (2004-2008; 2014-2016) e poi le tre esperienze estere con Manchester City (2009-2013), Galatasaray (2013/2014) e Zenith San Pietroburgo, che allenò per una stagione lasciando il club russo rinunciando ad una ricchissimo contratto per allenare la Nazionale italiana.

Il palmares del “Mancini allenatore”, dalla Fiorentina in poi, è da top coach: una Coppa Italia con la Lazio; tre scudetti consecutivi (di cui il primo dopo diciassette anni di attesa), due Coppe Italia (la prima dopo ventitre anni di attesa) e due Supercoppe italiane con l’Inter; un campionato inglese (che al City mancava dal 1968), un Community Shield (dopo altri quarant’anni di attesa) ed una Coppa d’Inghilterra, trofeo che mancava da quarantadue anni nella bacheca degli Sky blues; una Coppa di Turchia con il Galatasaray.

Ancora oggi Roberto Mancini, in casa Citizen, è considerato una “divinità” non solo per aver vinto un titolo che mancava da oltre cinquant’anni, ma anche per le modalità in cui lo ha vinto (vittoria all’ultimo minuto dell’ultima giornata), oltre a portare a casa in tre stagioni gli gli stessi trofei che la squadra “operaia” di Manchester aveva vinto, prima dell’arrivo di Mancini, in oltre un secolo di storia. Con la scelta del Galatasaray, Mancini accettò l’offerta di un club blasonato in un campionato discretamente competitivo e prese il posto, come a Firenze, di Fatih Terim.

Come se non bastasse, il 22 febbraio di due anni fa, Roberto Mancini ha ricevuto la “convocazione” nella Hall of fame del calcio italiano nella sezione “allenatori”. Prima di lui, avevano avuto l’onore di entrare nella Hall gente come Lippi, Sacchi, Trapattoni, Capello ed Ancelotti. Un onore per un allenatore che (ai tempi) svolgeva quel “lavoro” da solo quindici anni.

Ora Mancini è il tecnico della Nazionale, un ruolo ambitissimo che però dopo quel terribile Italia-Svezia dello scorso 13 novembre nessuno voleva prendere. Alla fine la Federcalcio ha optato per un profilo di spessore e vincente.

I presupposti per la risalita ci sono, la palla ora passa a Roberto Mancini da Jesi, numero 10 per vocazione in campo ed allenatore con le idee chiare in panchina.

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