Football Legend Peter Schmeichel
Goteborg e Barcellona distano 2,5 mila chilometri l’una dall’altra e sono state teatro, il 26 giugno 1992 ed il 26 maggio 1999, di due veri miracoli sportivi: la vittoria della Danimarca nell’Europeo svedese e la vittoria del Manchester United in Champions League negli ultimi tre minuti di una finale al cardiopalma contro il Bayern Monaco. A distanza di sette anni tra i due eventi, c’è un calciatore che ha disputato entrambe le finali. Un giocatore molto particolare, un portiere biondo, grande e grosso, con delle mise molto eccentriche ma che era al tempo stesso una scheggia ed un trascinatore: Peter Schmeichel.
Classe 1963, è stato l’idolo di Old Trafford per otto stagioni e di una generazione di tifosi per la sua sfrontatezza, grinta, forza e abilità tra i pali.
Sin da bambino voleva fare il portiere, ma non disdegnò mai di fare il “portiere volante”, ovvero parare con licenza di uscire dalla porta e segnare. Cose da parchetti e da oratori, ma che lui ha cercato di trasportare nei campi veri e propri.
A vent’anni debuttò nella massima serie danese con la maglia rossoblu del Hvidovre. Con la squadra dell’Hovedstaden iniziò a farsi conoscere e apprezzare da parte degli addetti ai lavori. Nel 1987 Schmeichel passò al Brondby: la squadra di mister Peitersen decise di puntare su quel ragazzone biondo affidandogli le chiavi della porta di una delle squadre più famose di Danimarca: dopo aver fatto per qualche tempo l’operaio e l’addetto alle pulizie, il ventiquattrenne Peter diventava un portiere pro. In cinque stagioni vinse 4 titoli nazionali, una coppa nazionale, giocò in Coppa dei Campioni e arrivò anche a un passo da una clamorosa finale di Coppa Uefa nel 1991. Sarà la Roma a stroncare i sogni di gloria dei danesi. O meglio, sarà un gol di Völler all’87’ a portare i giallorossi in finale. Prima di quella grande cavalcata europea (eliminati nell’ordine Eintracht Francoforte, Ferencvaros, Bayer Leverkusen e Torpedo Mosca), il Brondy aveva raggiunto i quarti di finale di Coppa dei Campioni nel 1987, venendo eliminato dal Porto. Schmeichel aveva 28 anni e in quella manifestazione si attirò le attenzioni di diversi club europei. Fu lesto il Manchester United ad accaparrarselo, portandolo ad Old Trafford per una cifra intorno al mezzo milione di sterline dell’epoca.
Con la maglia dei Red devils divenne uno dei portieri più forti e famosi della storia del calcio, maturando molto e diventando una vera saracinesca. Divenne difficile fargli gol, vista la sua stazza e la sua reattività su ogni tiro avversario: Schmeichel sinonimo di sicurezza e forza, rabbia e precisione.
Peter Schmeichel nelle otto stagioni a Manchester vinse tutto il vincibile: cinque Premier League, tre FA Cup, una Coppa di Lega inglese, quattro Charity Shield, una Supercoppa europea e l’incredibile Champions League di Barcellona. Gli stessi Red devils quell’anno compirono un incredibile treble (Premier League, FA Cup, Champions League), vincendo anche la Coppa Intercontinentale ma persero la Supercoppa europea contro la Lazio.
Ma il mito di Schmeichel nacque sette anni prima, nell’estate 1992. Ma dobbiamo fare un passo indietro al 13 novembre 1991, ultima giornata delle qualificazioni. La Danimarca e la Jugoslavia erano inserite nel girone 4: si qualificarono gli jugoslavi con 14 punti, con +1 sugli scandinavi.
Eppure il 30 maggio 1992 successe qualcosa di incredibile: la risoluzione numero 757 delle Nazioni unite, visto il perpetrarsi della guerra civile nella penisola balcanica, vietò a qualsiasi Nazionale sportiva jugoslava di partecipare a manifestazioni di qualsiasi tipo: Jugoslavia a casa, Danimarca a giocarsi l’Europeo che iniziava undici giorni dopo.
La squadra scandinava venne inserita nel girone A con i padroni di casa della Svezia, la Francia di Jean-Pierre Papin e l’Inghilterra dl Gary Lineker. Insomma, da seconda in un girone di qualificazione morbido (a parte la Jugoslavia, con la Nazionale danese c’erano anche Irlanda del Nord, Austria e Far Oer) ad un girone europeo di ferro. “Farà poca strada”, “è debole”, “torneranno a casa subito”, “hanno la testa alle vacanze”: questi erano i pareri ricorrenti tra addetti ai lavori e italiani (Italia che neanche si qualificò a quella manifestazione).
Ed invece il 26 giugno 1992, proprio la Danimarca di Schmeichel alzò al cielo di Goteborg la coppa “Henri Delaunay”. Si parlò di miracolo scandinavo visto che nessuno avrebbe scommesso un centesimo su una vittoria finale di una squadra che tutto pensava fuorché di giocare e di vincere un Campionato d’Europa da ripescata. Eppure era una Nazionale molto interessante (da Brian Laudrup a Flemming Povlsen, da Henrik Larsen a Lars Olsen a Kim Vilfort, la cui figlia di otto anni morì di leucemia pochissimo tempo dopo la vittoria europea), con in porta un mostro come Peter Schmeichel.
Ed è proprio Schmeichel a fare il vero miracolo, parando in semifinale, nella lotteria dei calci di rigore, il penalty ad un certo Marco van Basten. Danimarca che continuava il sogno eliminando i campioni d’Europa uscenti. E l’uomo in più di questa Danimarca era stato proprio Schmeichel. E la finale fu a senso unico: 2 a 0 alla Germania campione del Mondo in carica e Danimarca sul tetto d’Europa. Per la prima volta, una squadra batteva in un Campionato europeo sia i campioni d’Europa e del Mondo in carica.
A fine anno, Peter Schmeichel si classificò al quinto posto nella classifica del Pallone d’oro e venne eletto miglior portiere del Mondo: era dai tempi del quinto posto di Preben Elkjær Larsen nel 1986 che un danese non si piazzava così in alto nella classifica del premio di France football. Da quel momento, Peter Schmeichel divenne una star e bissò il titolo di miglior portiere del Mondo (si classificà secondo nel 1995 e nel 1999; terzo nel 1997; quarto nel 1994, nel 1996 e nel 1998; decimo nel 1991 e nel 2000)
Ed il 26 maggio 1999 Peter Schmeichel divenne l’ottavo danese in ordine di tempo a vincere la Champions League, il primo con la fascia di capitano, alzando al cielo di Barcellona la coppa europea più importante per club. Il miracolo avvenne al minuto 91. Il Bayern Monaco avanti dal 5′ del primo tempo, ma nel primo minuto di recupero ci fu l’insperato pareggio di Sheringham: corner lungo di Beckham, Schmeichel era in area e spizzò la palla, questa tornò ai bavaresi che la persero e Giggs calciò in porta trovando il tocco di Sheringham che sorprese Kahn. Due minuti dopo Solskjær compì l’impresa: corner ancora di Beckham, deviazione di testa ancora di Sheringham con l’attaccante norvegese che insaccò con un colpo d’istinto. Manchester campione d’Europa, giocatori del Bayern disperati e Schmeichel che fece una capriola per la felicità. I tedeschi durante il corso del match avevano colpito un palo ed una traversa, ma il portiere danese aveva compiuto parate importanti sugli attacchi di Matthaus e compagni.
E sette anni dopo il miracolo di Goteborg, il portierone di Gladsaxe alzò al cielo la coppa più importante d’Europa per club, emulando, dopo trentuno anni di attesa, Denis Law. Dopo otto anni i Red devils tornarono a vincere una coppa europea dopo il double Coppa delle Coppe – Supercoppa europea del 1991.
Ma nell’estate 1999 qualcosa si ruppe tra Schmeichel e l’ambiente: il portierone danese aveva un carattere molto difficile e nelle otto stagioni si fece notare anche per alcune discussione “colorite” non solo contro gli avversari, ma anche verso alcuni compagni, in particolare con Roy Keane, e contro tifosi avversari un po’ troppo “sopra le righe” (leggasi l’aver gettato fuori dal campo letteralmente un tifoso del Galatasaray che aveva invaso il campo durante la partita degli ottavi di finale di Champions nell’edizione 1993/1994). Anche con Alex Ferguson non furono tutte rose e fiori e nell’estate 1999 decise di dire addio alla Premier per una nuova avventura: due anni di contratto con lo Sporting Lisbona, allora allenato da Giuseppe Materazzi. Salutava l’Inghilterra uno dei giocatori che aveva fatto amare il calcio inglese dopo anni dove l’Inghilterra era nota più per i fatti degli hooligans che per le gesta delle singole squadre di calcio.
E con la casacca biancoverde del club della capitale, Schmeichel fu tra i trascinatori di quella squadra che tornò a vincere un campionato dopo diciotto anni di attesa. In pratica Peter Schmeichel divenne un talismano: portiere nel punto più alto del Brondy; portiere dello United che vinse il titolo dopo ventisei anni e la Champions dopo trentuno; portiere dello Sporting Lisbona tornato al vertice della Primera Liga dopo quasi venti anni.
Eppure dopo due anni decise di tornare in Premier, accettando l’offerta dell’Aston Villa, dove giocò una sola stagione, vincendo la Coppa Intertoto. Ma oltre a vincere l’ennesimo trofeo, Schmeichel con i Villans entrò nella storia del calcio d’Oltremanica: contro l’Everton, il 20 ottobre 2001, segnò dopo aver stoppato la palla e calciato di destro, diventando il primo portiere a segnare in campionato. Ma non era la prima volta che il “grande danese” aveva segnato una rete, visto che anche con la Danimarca e con lo United era entrato nel tabellino dei marcatori: contro il Belgio in un’amichevole nel 2000 e contro i carneadi russi dello Rotor Volgograd nei trentaduesimi di finale della Coppa Uefa 1995/1996.
Eppure anche a Birmingham le cose non funzionarono al meglio e a fine stagione la leggenda danese salutò e si cercò un’altra squadra. Da un anno aveva detto addio alla Nazionale: dopo aver giocato quattro Campionati europei di fila ed un Mondiale sfortunato (Danimarca battuta nei quarti di Francia ’98 da un Brasile che faticò ad avere la meglio), ancora oggi nessun giocatore danese lo ha ancora superato come presenze (129) e nessun altro portiere danese ha mai segnato in Nazionale.
Approdò ai rivali dello United, il Manchester City, lontanissimo parente di quello attuale: una stagione di contratto per chiudere la carriera a 40 anni, vincendo il derby di andata per 3 a 1. E proprio il 9 novembre 2002 ci fu una delle scene più surreali del calcio: Peter Schmeichel era, ovviamente, il capitano del City e prima che le squadre entrassero in campo, nel tunnel, a parte una stretta di mano con Barthez, nessun altro suo ex compagno lo salutò. Anzi capitan Gary Neville si rifiutò di stringergli la mano, lasciandolo spiazzato. Il video fece il giro del Mondo e ancora oggi è molto cliccato. Per un infortunio nel pre-gara, Schmeichel non giocò il match di ritorno: il 9 febbraio 2003 Old Trafford applaudì comunque il grandissimo ex.
Schmeichel partecipò ad alcuni programmi televisivi e ad un reality show danese di dubbio gusto. Ha chiuso con il calcio e si è dato al golf, anche se ha “collezionato” alcune caps come opinionista televisivo.
La dinastia degli Schmeichel continua con il figlio Kaspar, un passato nelle giovanili del ManCity e da sei stagioni portiere del Leicester City dei miracolo di Ranieri, lo scorso anno per la prima volta campione d’Inghilterra e quest’anno qualificato per la prima volta nella sua storia alla fase ad eliminazione diretta di Champions League. E la dinasty potrebbe continuare con il nipote Max.
Peter Schmeichel ancora oggi è un mito per tanti ragazzini che grazie a lui si sono avvicinati al ruolo del portiere. Un ruolo difficile dove l’errore costa caro e dove si è considerati dei pazzi.
Peter Schmeichel è stato un pazzo “buono”, ma una leggenda, ricordato con affetto e passione da tutti, grazie alla sua bravura, al suo istinto innato e alla sua sfrontatezza.
Del resto, un detto dice che le leggende non muoiono mai. Lunga vita a “the Great Dane”, allora.