Michael Owen, il fenomeno
Politicamente, e calcisticamente, Inghilterra e Argentina sono rivali da sempre e ogni volta che le due Nazionali si incontrano in un rettangolo verde la passione, la rabbia e la gioia di prevalere sul “nemico” prende sempre il sopravvento. Se ne sono giocate molte di Inghilterra-Argentina: la più celebre è stata senza dubbio quella dei quarti di finale di Messico ’86 che consacrò Maradona come dio (anzi dios) del calcio.
Eppure un altro Inghilterra-Inghilterra ha fatto conoscere al Mondo un ragazzino di Chester che ha fatto sognare l’Inghilterra e il suo calcio. Siamo a Saint Etienne, stadio Guichard, 30 giugno 1998, ottavi di finale. Minuto 16: il punteggio era già sull’1-1, con i timbri dei due numeri 9, Shearer e Batistuta. La partita era viva quando l’attaccante argentino Claudio Lopez arrivò nei pressi dell’area inglese. Paul Ince gli rubò palla e la passò a David Beckham. Lo Spice boy la passò all’attaccante che di tacco destro la stoppò e andò via palla al piede verso l’area avversaria, dove di destro superò Roa con un gran tiro. Vantaggio inglese e tutta la squadra che accorse per abbracciare il compagno. La partita terminò ai rigori e passò ai quarti l’Albiceleste, ma quella fu la partita che consacrò il mito di quel ragazzino con la maglia numero 20 sulle spalle: Michael Owen. Il match fu il crocevia di una delle carriere più fulgide della storia del calcio, ma altrettanto sfortunata. Perché se da una parte Owen nei suoi diciassette anni di carriera professionista ha vinto tanto, dall’altra ha avuto la sfortuna di avere incontri troppo ravvicinati con il nemico dei calciatori, l’infortunio. E i continui acciacchi, le operazioni e le riabilitazioni sono state il vero problema del Golden boy del calcio di Sua Maestà che poteva essere ancora più football legend di quanto non lo sia stato.
I tifosi di calcio si stropicciarono gli occhi nel vedere come un ragazzino di 18 anni aveva segnato un gol di pregevolissima fattura in una match delicato in una manifestazione del calibro del Mondiale. Ma in patria il nome di Owen era quello del predestinato.
Nativo di una città a pochi chilometri dal Galles, Owen nacque in una famiglia di sportivi con il padre ex giocatore. In tenera età iniziò a calciare i primi palloni e quando fu inserito nel campionato baby gallese fece un qualcosa di strepitoso: oltre 90 reti e record per il campionato scolastico del Galles del Nord. Il piccolo Michael superò un mostro sacro del calcio locale, Ian Rush, che alla sua età ne segnò tredici di meno. “Predestinato” si diceva e a 12 anni passò al Liverpool, una delle grandi del calcio inglese un po’ in decadenza dopo i successi europei degli anni Ottanta. Tifoso dell’Everton, la seconda squadra della città dei Beatles, furono proprio i Reds ad accaparrarselo pensando: “se questo è più forte di Ian Rush, che da noi è un mostro sacro, abbiamo fatto il colpo di mercato del secolo”. E i fatti diedero ragione al Liverpool, tanto che Owen debuttò in Premier contro il Wimbledon il 6 maggio 1997 a 17 anni e quattro mesi: al suo ingresso in campo, i Dons vincevano 2-0 ma il giovane attaccante numero 18 segnò il gol della bandiera dopo pochi minuti. Era la stagione 1996/1997, i Reds chiusero in classifica al quarto posto, ma il calcio inglese aveva appena visto entrare in campo un ragazzino veloce, tecnico e con un destro al fulmicotone.
Owen rimase al Liverpool otto stagioni (1996-2004), raccogliendo 297 presenze e realizzando 158 reti. In quel periodo, il Liverpool tornò competitivo, ottenendo come migliori piazzamenti un secondo, due terzi, tre quarti posti ed arrivarono i primi trofei: nella stagione 2000/2001, con in panchina Gérard Houllier, i Reds vinsero in un anno solare Coppa d’Inghilterra, Coppa di Lega, Charity Shield, Coppa Uefa e Supercoppa europea. Dopo diciassette stagioni, i Reds tornarono a vincere in Europa con una squadra molto forte: Westerveld in porta, capitan Hyypia e Carragher in difesa, Gerrard a centrocampo e davanti il duo Fowler-Owen che ricordarono ai tifosi della “Kop” i fasti di Rush, Dalglish e Souness. Owen non segnò nella finale Uefa, ma fu decisivo in FA Cup 2000-2001 (doppietta contro l’Arsenal in una partita passata alla storia come “la partita di Owen”), Football League Cup 2002-2003 (gol del 2-0 contro il Manchester United) e il gol del momentaneo 3-0 contro il Bayern in Supercoppa. Al dicembre 1999, a 20 anni, Owen aveva già segnato già cinquanta reti con il Liverpool.
A livello personale, negli anni con la maglia dei Reds, l’attaccante inglese vinse due classifiche marcatori consecutive (1997-1999, segnando trentasei reti totali), il premio di miglior giovane della Premier (1998), miglior esordiente (1998), calciatore dell’anno per la rivista di settore “World Soccer” (2001) e poi nel dicembre 2001, a 22 anni, il premio più importante assegnato individualmente ad un calciatore: il Pallone d’oro. Dopo ventidue edizioni, il premio tornava in Inghilterra: l’ultimo inglese a primeggiare fu Keevin Keegan nel 1978 e nel 1979. Era destino: quando l’attaccante dell’Amburgo vinse il suo secondo premio, Owen veniva al Mondo.
Il Pallone d’oro fu inaspettato ma meritato ed andava a coronare la giovane carriera di un ragazzino di poco più di venti anni che aveva già alle spalle 32 presenze e quattordici reti in Nazionale maggiore: nessuno lo ha ancora superato come debuttante più giovane. E delle reti, il gol (sfortunato alla fine) contro l’Argentina in Francia gli valse anche il premio come miglior giovane del torneo.
Con la Nazionale inglese prese parte anche allo sfortunato Europeo 2000 in Belgio-Olanda (nessuna presenza e Inghilterra fuori già alla prima fase) e all’Europeo portoghese (Tre leoni fuori ai quarti contro i padroni di casa e l’attaccante dei Reds autore di una rete), dove emerse l’estro dell’altro enfant prodige del calcio inglese, Wayne Rooney.
Ma la Premier incominciò a stare stretta a Owen perché i successi (a parte il magico 2001) erano scarsi. Nell’estate 2004 l’attaccante fece armi e bagagli e salpò al Bernabeu, fiore all’occhiello della sontuosa campagna estiva del Real Madrid.
Si pensava che con l’arrivo dell’inglese il Real avrebbe potuto vincere Liga e Champions, ma quella stagione i Galacticos arrivarono secondi in campionato e furono eliminati negli ottavi sia in Champions che in Copa del Rey. Stagione deludente nonostante in squadra ci fossero Zidane, Figo e Ronaldo. Owen non fece nel complesso male, segnando 16 reti in quarantacinque incontri, la maggior parte da subentrato. Una squadra senza problemi tecnici lo avrebbe riconfermato, visto che il cartellino costò 25 milioni di euro, e invece il Real lo mise sul mercato. Tutti pensarono che ritornasse da figliol prodigo ad Anfield Road ed invece andò “in periferia”, nel Newcastle United di Graeme Souness, vecchia gloria del Liverpool anni ’80, con in squadra Alan Shearer. I Magpies sganciarono al Real 18 milioni di euro, portando in riva al Tyne il talentuoso Golden boy inglese, ad oggi l’acquisto più caro della storia del club.
Se in riva al Manzanarre Owen era “uno dei tanti”, nella città nei pressi del Vallo di Adriano era il bomber adatto per giocare con Shearer. Ma iniziarono i primi guai fisici per Owen: nel dicembre 2005 si fratturò il metatarso e rimase fuori tre mesi. Non tornò al top ma quello che contava allora era la convocazione per il Mondiale tedesco. Owen partì per la Germania, ma il 20 giugno successe l’irreparabile: nei minuti iniziali della seconda partita del girone contro la Svezia, l’attaccante inglese cadde a terra e il ginocchio si ruppe. Il verdetto: intervento chirurgico e ritorno in campo dopo 18 mesi. Vinse la Coppa Intertoto 2006, ma diede meno di quanto ci si potesse aspettare da uno della sua caratura. Nel 2007 chiuse con la Nazionale maggiore: la sua ultima apparizione fu contro la Russia a Wembley il 12 settembre: 3-0 finale, doppietta per lui. Ottantanove caps e quaranta reti nel complesso.
A fine gennaio 2009 gli “saltò” la caviglia e rimase fuori altri due mesi. A giugno rescisse con i Magpie, lasciandosi male con la dirigenza che dirà anni dopo di aver fatto un errore (economico) a portarlo a Newcastle. Chiuse con trenta reti totali in quattro stagioni e la retrocessione in Championship. Owen in “cadetteria” non scese e, a parametro zero, andò allo United.
Owen non sembrava più il Golden gol di un tempo: gli anni avanzavano, la forma fisica era precaria e i troppi stop sembravano indirizzarlo sulla via del tramonto. Con i Red devils firmò per tre anni, maglia 7 sulle spalle con la speranza di tornare a giocare al calcio come un tempo. Owen giocò complessivamente cinquantuno partite segnando solo 17 reti complessive. La media realizzativa si alzò inesorabilmente ma vinse (da comprimario) una Coppa di Lega, due Commuty Shield e il titolo 2010, il primo della sua carriera dove segnò solo tre reti in dieci partite. La sua rete più importante in maglia Red devils la siglò contro il Manchester City il 20 settembre 2009 al minuto 96. Per il resto, poca roba e altri infortuni.
Owen oramai era un ex e dopo Manchester passò allo Stoke City, club dello Stafforshire impegnato nella lotta per non retrocedere: i Potters furono l’ultima squadra pro di Owen. Non era più quello di prima: debole, in là con gli anni (quindici anni a grandi livelli), gambe che non reggevano più. Dopo sole otto partite e un solo gol lasciò sia lo Stoke che il calcio giocato.
La sua ultima partita, giocata al St Mary’s Stadium di Southampton, contro i Saints: le due tifoserie alla fine della partita gli tributarono una standing ovation e tanti applausi. La carriera del più fulgido talento del calcio inglese terminava in un campo della periferia della Premier League.
Appese le scarpe al chiodo, Michael Owen è diventato ambasciatore del Liverpool nel Mondo.
Pensare oggi a Owen porta a pensare a che tipo di giocatore sarebbe stato se non avesse avuto così tanti infortuni. Con i se e con i ma, si sa, non si gioca a calcio ma magari avrebbe potuto segnare di più (262 reti in carriera), vinto qualche altro premio e qualche coppa ancora più importante. Ma nel calcio è così: l’infortunio è il nemico del calciatore. Un conto è se ci si fa male e si recupera subito, un conto è cadere in continue ricadute e veder giocare i tuoi compagni dalla palestra o facendo del lavoro differenziato, vedendosi superato nelle gerarchie.
Michael Owen è stato un giocatore incompiuto: veloce e abile con i piedi, grande visione di gioco precisione in campo, amato e contestato, idolatrato e scaricato da chi lo ha considerato un dio del calcio e chi lo considera solo il giocatore giusto, al posto giusto e al momento giusto, riferendosi al fatto che non appena è salita l’asticella del valore della squadra in cui militava (Real e United) non si è dimostrato all’altezza. Ma chi asserisce così è in mala fede, visto che in Spagna ha avuto la possibilità di segnare tanto nonostante fosse un “panchinaro”, mentre allo United è arrivato in tarda età, dopo una serie di gravi infortuni e con davanti (in attacco) gente del calibro di Rooney, Berbatov, Welbeck e Chicharito Hernandez.
Una cosa è certa: gli inglesi con Owen hanno sperato di tornare a vincere un Mondiale e/o un Europeo dopo anni di delusioni fatte di uscite anticipate (l’ottavo di Francia 98), rigori falliti (semifinale di Italia ’90) e gol non convalidati (Lampard in Sud Africa) oltre a Commissari tecnici esosi e non proprio all’altezza (Sven-Göran Eriksson, Fabio Capello, Roy Hogson, Sam Allardyce). Con il ragazzo di Chester si pensava che fosse arrivato anche il momento di quelli che si definivano i Maestri. Invece si possono consolare con Owen ultimo inglese a vincere il Pallone d’oro oppure con la sua tripletta alla Germania in quel fantastico 2001.
Poca roba? Forse, ma non ditelo ai tifosi dei Reds cresciuti con le reti e le vittorie di Michael Owen. Potrebbero risentirsi.