Il Verona dei miracoli e lo scudetto dei sogni
Il sito web della “Treccani” alla voce “miracolo” riporta “In genere, qualsiasi fatto che susciti meraviglia, sorpresa, stupore, in quanto superi i limiti delle normali prevedibilità dell’accadere o vada oltre le possibilità dell’azione umana”. Il miracolo è sorpresa, imprevedibilità, pazzia e può essere religioso, economico e sportivo. E quando è sportivo significa che qualcuno ha fatto un qualcosa di impensabile, qualcosa di cui si direbbe “non ci avrei scommesso un centesimo”. Di miracoli sportivi è piena la storia, di qualsiasi disciplina e anche il calcio non è da meno: dalla vittoria della Premier League da parte del Leicester lo scorso anno a quelle di Lilla e Montpellier prima del dominio del Paris Saint Germain, fino alla Eredivisie olandese con le vittorie di AZ Alkmaar e Twente che, nel 2009 e nel 2010, hanno interrotto il dominio di 28 anni consecutivi di Ajax, PSV e Feyenoord.
E in Italia? I miracoli calcistici ci sono stati, ma sono molto pochi: dalle semifinali di Atalanta e Vicenza in Coppa delle Coppe nel 1988 e nel 1997 alle vittoria del Napoli targato Maradona alle storiche qualificazioni UEFA di Cesena e Chievo Verona nel 1976 e nel 2002. Per non parlare del primo Parma di Nevio Scala, del Perugia di Ilario Castagne e Walter Speggiorin o il Sassuolo di Berardi. Ma focalizziamoci su Verona.
La città di Romeo e Giulietta, dell’Arena, degli Scala e del “risi e bisi” alla parola miracoli calcistici è molto legata. Torniamo al 12 maggio 1985.
Quella domenica di 31 anni fa, il Chievo giocava nell’allora campionato di Interregionale e si classificò settimo, mentre la prima squadra della città, l’Hellas Verona, pareggiò a Bergamo contro l’Atalanta. Preben Elkjær Larsen al sesto della ripresa pareggiò la rete di Eugenio Perico. Un punto in classifica per entrambe, ma se per la Dea quello fu un punto che la cementò al centro classifica, quel punto alla compagine allenata da Osvaldo Bagnoli fu di un’importanza clamorosa perché le diede la matematica vittoria del campionato. Eh sì, il piccolo Hellas a distanza di quindici anni portava il tricolore in provincia dopo il miracolo Cagliari. Ma se i sardi rappresentano un capoluogo di provincia, per vedere un tricolore assegnato ad una squadra rappresentante nessuno capoluogo di regione c’è da tornare addirittura al campionato 1922, quando a vincerlo furono due “provincialissime”, la Pro Vercelli e la Novese. Dalla vittoria dell’Hellas Verona, nessun’altra squadra della provincia ha vinto lo scudetto.
La vittoria dei ragazzi di Osvaldo Bagnoli, chiamato il “mago della Bovisa”, racchiuse in sé un vero miracolo vista la caratura delle avversarie allora: dalla prima stagione di Maradona in Italia all’ultima di Zico, dalla Juventus di Platini che il 29 maggio successivo vinse la sua prima (e tragica) Coppa dei Campioni all’Inter di Rummenigge e Altobelli, per non parlare della Roma di Falcao e Pruzzo e la Fiorentina di Antognoni.
Il Verona fu la vera outsider del calcio italiano dopo la sua promozione in massima serie di tre anni prima. La squadra scaligera si era fatta notare fino ad allora per gli ottimi risultati: due finali consecutive di Coppa Italia (1982/1983 e 1983/1984 perse contro Juventus e Roma cui si aggiunge la prima finale, nella stagione 1975/1976, persa contro il Napoli) e una partecipazione alla Coppa UEFA nella stagione 1983/1984 (sedicesimi di finale persi contro l’Austria Vienna dopo aver eliminato la Stella Rossa al primo turno). Ma nulla poteva far presagire alla vittoria dello scudetto l’anno successivo.
In quel torneo le vittorie valevano ancora due punti, l’Hellas raccolse 43 punti (+4 sul Torino), frutto di 16 vittorie in trenta partite (Serie A a sedici squadra) di cui sei in trasferta, quindici pareggi e solo due sconfitte, rimediate contro l’Avellino all’ultima del girone di andata ed in casa contro il Torino. I gol raccolti dal mitico portiere Claudio Garella in quella pazza stagione furono solo 19 mentre i gol segnati furono quarantadue, terzo attacco del campionato.
Quello fu il primo scudetto di una squadra veneta che non arriva così in alto dai tempi del secondo posto del Lanerossi di Paolo Rossi della stagione 1977/1978 e che vinceva qualcosa dai tempi del Venezia di Valentino Mazzola ed Ezio Loik vincitore della Coppa Italia nel 1941.
L’Hellas Verona era presieduto da Celestino Guidotti che nell’estate 1984 rafforzò una squadra nel complesso buona con gli arrivi del difensore tedesco Hans Peter Briegel dal Kaiserslautern e dell’attaccante danese Preben Elkjær Larsen dai belgi del Lokeren. E proprio quest’ultimo mise a segno all'”Atleti azzurri d’Italia” di Bergamo il gol-scudetto. Lo “scudetto irripetibile” come è sempre stato definito.
Dove stava il successo del Verona scudettato? In porta c’era lo sgraziato Garella che parava con i piedi e non con le mani; in difesa capitan Tricella, Marangon e Fontolan; a centrocampo regnavano Briegel e Volpati, sulla fascia correva Pierino Fanna da Grimacco e davanti c’erano Galderisi e Elkjær Larsen con dietro di loro di Gennaro. In panchina Bagnoli poté contare sugli apporti di Turchetta, Sacchetti e Ferroni.
I punti di forza di quel Verona erano proprio i due stranieri: da una parte l’ex Kaiserslautern che da difensore Bagnoli trasformò in centrocampista e con la sua abilità riusciva ad impartire i movimenti dei compagni, dettare i tempi a tutti e nell’anno magico 1985 venne eletto miglior giocatore tedesco occidentale, dall’altra l’attaccante di Copenaghen. E su quest’ultimo ci sarebbe da scrivere una tesi laurea. Preben Elkjær Larsen a distanza di trentuno anni fa ancora impazzire i tifosi del Verona, pazzi per quel forte giocatore che era pazzo in campo e fuori. Elkjær Larsen era il terminale di quel Verona, l’ariete, il faro, quello che segnava senza una scarpa, il sindaco, l’idolo della tifoseria ed amato da una piazza che, nella nota filastrocca veneta vedeva i “veronesi tutti matti”. Arrivato dal Lokeren dove si era contraddistinto per grinta, forza, fiuto del gol e pazzia, Elkjær Larsen aveva la numero 11 e sotto l’Arena rimase quattro stagioni dove, oltre a livello di club, ottenne anche molto a livello singolo, in quanto nel 1985 arrivò secondo nella classifica del Pallone d’oro dietro ad un inarrivabile Michel Platini: per la prima volta un giocatore gialloblù non solo era candidato, ma salì sul podio del prestigiosissimo premio individuale de “L’Equipe”. L’anno prima l’attaccante classe 1957 si era classificato terzo dietro ancora a Platini e a Tigana e nel 1986 fu quarto. Elkjær Larsen era anche uno dei fari di quella che passò alla storia come la “Danish dynamite”, la “dinamite danese”, la Nazionale danese più forte di sempre, anche più di quella che vinse a sorpresa l’Europeo 1992.
La sua prima (e finora unica) esperienza in Coppa dei Campioni vide un Hellas Verona molto sfortunato, in quanto dopo l’agevole vittoria nei sedicesimi contro il PAOK Salonicco, negli ottavi i Bagnoli boys affrontarono i campionati d’Europa uscenti della Juventus in una partita fratricida che vide il Verona impattare sullo 0 a 0 al “Bentegodi” all’andata, ma cadere al ritorno in un “Comunale” deserto sotto i colpi di Platini e Serena. La partita fu contraddistinta in negativo dalla pessima conduzione di gara del francese Wurtz. Il primo derby italiano nella competizione europea più importante era stato macchiato da un arbitraggio molto discutibile.
L’anno successivo lo scudetto vide il Verona lontano dalla zone alte della classifica (decimo), per poi arrivare quarto, ancora decimo, undicesimo e, nella stagione 1990/1991, addirittura sedicesimo e retrocesso in Serie B. La stagione della retrocessione fu la fine del “miracolo Verona” e coincise con l’addio di Bagnoli passato al Genoa dove, anche li, fece un’altra sorta di miracolo con il Grifone, semifinalista di Coppa UEFA nella stagione 1991/1992, dopo aver battuto ed eliminato il Liverpool ad Anfield Road e fermato in semifinale solo dall’Ajax.
Ecco appunto Osvaldo Bagnoli, il “mago della Bovisa”, uno che andava in panchina con il suo particolare cappellino, un uomo mite ed introverso ma uno che ha scritto una pagina indelebile della storia del club scaligero nato nel 1903.
Non era un’esteta ma un “operaio del calcio”, uno che faceva le squadre con giocatori che non trovavano spazio in altre squadre o che erano troppo giovani per le grandi. Considerato “catenacciaro”, tradizionalista e tutto fuorché mediatico: spesso parlava in dialetto, non aveva il physique du rôle, non aveva mai allenato a grandi livelli, ma la golden age del suo Verona è stato il segno che anche le piccole piazze possono sognare in grande. E Bagnoli, l’anno prima dello scudetto, era stato cercato dalle grandi del calcio italiano: col senno di poi, fece bene il mister a rifiutare le allettanti offerte per rimanere a Verona e scrivere la storia di questo sport in Italia.
Anzi Bagnoli è stato uno che ha dato tanto al calcio ma che da questo ha ricevuto molto meno di quanto avrebbe dovuto, tanto che è non allena più dal febbraio 1994 quando, dopo una stagione e mezzo, venne esonerato dall’Inter. Da allora Bagnoli, per scelta propria, non ha mai più allenato e salvo qualche comparsata televisiva è praticamente uscito dal giro. Se si fermasse per strada qualsiasi adolescente, alla domanda su chi fosse Osvaldo Bagnoli nessun giovane saprebbe dire chi è, mentre nella città dell’Arena anche un poppante saprebbe dire chi era, cosa è stato e cosa ha rappresentato Osvaldo Bagnoli per un’intera città. Una città che ha toccato il cielo con un dito con un allenatore ed una squadra operaia.
Dalla vittoria di Tricella e compagni, la città più piccola ad aver vinto uno scudetto è stata Genova con la Sampdoria nel torneo 1990/1991 (un capoluogo di regione) ed ora, visti i budget differenti, è difficile che una provinciale possa ripetere i fasti del Verona. Difficile ma non impossibile, visto che in Europa notiamo che i miracoli calcistici ci sono i quasi tutti i campionati.
Il Verona ha vinto il campionato per caso? Forse sì, ma se pensiamo a cosa fece il Verona con Bagnoli in panchina in quegli anni e al bel gioco espresso, alla fine la vittoria non è stata un caso ma l’ultimo “vagone” di un treno chiamato “programmazione”. Hellas programmatore, Hellas serio, Hellas fortunato, Hellas operaio, Hellas che ha creduto al miracolo fin dal termine del girone di andata di quella incredibile stagione caratterizzata da “Verona beat”, la canzone simbolo dei veronesi “Gatti di vicolo Miracoli” (giust’appunto).
Ma il bello della favola Hellas campione d’Italia è l’aver dimostrato che anche Davide può arrivare dove è arrivato Golia, dimostrando che credendoci sempre si arriva a vincere. Per questo motivo il Verona targato Bagnoli sarà irripetibile anche perché da allora il calcio è cambiato (in meglio o in peggio, questo è da valutare).
Ma è stato bello cosi. Peccato che dall’addio di Bagnoli, il Verona negli anni ha avuto come miglior risultato in Serie A un nono posto nell’ultimo torneo del secolo scorso, ha fatto (e sta facendo) tanta B e per ben quattro stagioni consecutive ha militato in terza serie, con il rischio di retrocedere nella quarta.
Oggi Verona è una piazza che vive per il calcio nonostante la cocente retrocessione della scorsa stagione. Molto probabilmente Pazzini e compagni torneranno in Serie A a giocarsi il derby contro il Chievo che negli anni del mitico Verona di Bagnoli si barcamenava nel campionato dilettanti, ma non ci sarà più un secondo Verona 1984/1985.
La favola dell’Hellas Verona oggi è irripetibile, romantica e nostalgica, figlia di un passato ricordato dolcemente da tutti quelli che amavano il calcio degli anni ’80 e che oggi non possono non ricordare con affetto cosa fece quella squadra di provincia che mise dietro di se tutte le squadre italiane più forti.
Questo è il bello del calcio. Bello come una parata con i piedi dello sgraziato Garella o come il gol di Preben Elkjær Larsen alla Juventus sotto la Curva Sud senza una scarpa.