L’Inter del ‘Trap’
Cos’è un record? Il record è un qualcosa di storico, un qualcosa che è là in cima e che ci dice che se vuoi superarlo devi fare meglio. Lo sport vive di record, di primati. Di prestazioni che sono punti di riferimento o un qualcosa da provare ad eguagliare o, perché no?, migliorare. Il calcio non ne è mai stato esente, anzi.
Lo spazio “Football Legend” di questa settimana non è dedicato ad un singolo calciatore, ma ad una squadra che nella stagione 1988/1989 riscrisse la storia del calcio italiano per la sua prestazione mai più superata: l’”Inter dei record” di Giovanni Trapattoni. Ancora oggi, quella squadra è ricordata con affetto non solo dai tifosi del Biscione, ma da tutti i tifosi di calcio per quello che compì in quella fantastica stagione.
Partiamo da un inciso: le prestazioni di quella squadra furono fenomenali per quei tempi dove i punti valevano solo due punti anziché i tre attuali e potevano giocare solo tre stranieri (comunitari e non).
Allora la nostra Serie A era il meglio del meglio possibile, tanto che alla fine di quella stagione Milan, Napoli e Sampdoria vinsero rispettivamente le tre coppe europee del tempo (Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe) e per la prima volta nella storia la Supercoppa europea fu disputata da squadre dello stesso Paese. Il nostro livello calcistico era elevato en nel nostro massimo campionato militavano i migliori giocatori del tempo, in particolar modo italiani. Il nostro calcio era vanto, ovunque.
In quel contesto, e in quegli anni, l’Inter del Presidente Ernesto Pellegrini era sempre in lotta per un posto in Coppa Uefa. Nelle ultime dieci stagioni, il Biscione aveva vinto uno scudetto, una Coppa Italia ed il miglior piazzamento erano stati tre terzi posti, mentre in Europa il top furono una semifinale di Coppa dei Campioni e due di Coppa Uefa. Insomma, poca roba.
Pellegrini voleva portare il tricolore dalla parte del Naviglio nerazzurro e da quando divenne Presidente nel 1984 dopo Fraizzoli, aveva speso molto per non vincere nulla. Non bastarono gli arrivi di Rumenigge, Scifo, Bertoni e l’arrivo di una batteria di giocatori italiani di spessore: lo scudetto non voleva arrivare. Anzi, si pensava che l’arrivo dal Bayern Monaco del due volte Pallone d’oro e Campione d’Europa Rumenigge potesse portare il titolo ai nerazzurri, ma l’attaccante di Lippstadt deluse le attese, nonostante i 5 miliardi spesi da Pellegrini per prenderlo.
Nella stagione 1986/1987 il colpaccio: l’arrivo in panchina di Trapattoni, l’artefice del fantastico ciclo della Juventus che nei dieci anni precedenti aveva vinto tutte le coppe internazionali e ben sei scudetti.
Eppure l’arrivo del Trap non fu positivo all’inizio: un terzo ed un quinto posto in classifica che allora significavano solamente un piazzamento UEFA. Erano gli anni del Napoli di Maradona, del Milan degli olandesi e della Sampdoria dei “gemelli” Vialli e Mancini. I tifosi nerazzurri rumoreggiavano e volevano la testa del tecnico, anche perché i risultati furono davvero modesti nonostante le attese.
La stagione 1988/1989 fu quella del possibile tesseramento di un terzo straniero in squadra: arrivarono in Serie A veri fenomeni, ma anche giocatori di scarso rilievo nonostante i soldi spesi per acquistarli dalle rispettive squadre.
Il torneo passò da sedici a diciotto squadre, una novità che mancava da ventuno stagioni: due squadre in più e ben quattro retrocessioni. Questo formato durò fino al 2004/2005, quando la Serie A passò a 20 squadre dopo cinquantadue anni, mentre a partire dalla stagione 1994/1995 la vittoria valse tre punti.
La stagione 1988/1989 partì per l’Inter con la riconferma, senza se e senza ma, di Trapattoni e Pellegrini decise di rivoluzionare la squadra: via Passarella, via Scifo, via Altobelli e via Rummenigge già due stagioni prima per fare posto da gente che scriverà la storia della Benemerita: Nicola Berti dalla Fiorentina, Alessandro Bianchi dal Cesena, Ramon Diaz dalla Fiorentina e dal Bayern Monaco due tedeschi che diventeranno dei veri miti, Lothar Matthäus e Andreas Brehme.
L’Inter partiva ai nastri di partenza di quel campionato tra le prime posizioni, anche se in quel campionato le concorrenti si erano rinforzate pesantemente: il Milan aveva fatto il tris di olandesi con l’arrivo di Frank Rijkaard dal Real Saragozza, il Napoli rimpolpava il centrocampo con il brasiliano Alemão, la Juventus (lontana da almeno tre stagioni dai fasti del recente passato) aveva portato in Italia il primo sovietico della storia (Alexander Zavarov) ed il portoghese Rui Barros (oltre all’ex interista Alessandro Altobelli); la Fiorentina aveva ingaggiato Stefano Borgonovo, Carlos Dunga e Roberto Pruzzo. L’Inter era lì, pronta a fare a spallate per rimettersi il tricolore sul petto e tornare in Coppa dei Campioni.
La stagione iniziò male con l’eliminazione in Coppa Italia nella seconda fase a gironi per mano della Fiorentina. Stessa sorte in primavera in Coppa Uefa, eliminata dal Bayern Monaco negli ottavi di finale. Ma quello che interessa, oggi, era il campionato e quella squadra fece l’impresa: 34 partite, 26 vittorie, sei pareggi, due sconfitte, 67 gol fatti, diciannove gol subiti. Una leadership mai messa in discussione, tanto che la squadra a cinque giornate dal termine del campionato aveva praticamente chiuso i giochi, vincendo il suo tredicesimo scudetto.
Il girone di andata fu vinto da Bergomo e compagni grazie a undici vittorie, quattro pareggi ed una sola sconfitta, all’ultima, per mano della Fiorentina in Toscana: un vantaggio di un punto sul Napoli. Per i campani quella possibilità remota nel girone di ritorno di poter dare la “spallata” all’Inter venne meno perché i meneghini misero la quarta e a cinque giornate dalla fine il vantaggio era di sette punti. Che in un campionato dove la vittoria valeva due punti era un margine difficile da recuperare.
La matematica premiò l’Inter il 28 maggio 1989, con la vittoria per 2-1 proprio contro il Napoli a quattro giornate della fine del campionato: vantaggio ospite con Careca, pareggio dei padroni di casa con Berti e al minuto 83 la punizione precisa di Matthäus che superò Giuliani. Vittoria, matematica certa e dopo nove anni l’Inter si laureava campione d’Italia. Il rullino fu devastante: undici punti sulla seconda, dodici sulla terza, trentasei sull’ultima.
Con il senno di poi fu profetica la dichiarazione di Dossena, fantasista della Sampdoria che, da quinta, si prese diciannove punti finali: non erano scarsi gli avversari,era troppo forte quell’Inter che correva più degli altri che andavano ad un passo normale. Ergo, il Napoli era campione d’Italia nel campionato dei “normali” e non degli “alieni”.
Come se non bastasse, a vincere la classifica marcatori fu proprio un giocatore dell’Inter: Aldo Serena, allora 29 anni ed un passato ricco di derby avendo vestito, nel giro di sei stagioni, le maglie di Milan, Juventus, Torino e Inter. Erano diciassette stagioni che un interista non vinceva la classifica marcatori, vale a dire dalla vittoria di Roberto Boninsegna nel torneo 1971/1972. Da allora, solo altri tre attaccanti dell’Inter hanno vinto la classifica marcatori: Christian Vieri (2002/2003), Zlatan Ibrahimović (2008/2009) e due volte Mauro Icardi, nel 2014/2015 e la scorsa stagione.
Chi furono gli artefici del trionfo nerazzurro? E’ facile dire il collettivo, ma qua ci sono da fare dei distinguo. Innanzitutto l’acquisto di Lothar Matthäus, arrivato per circa 6 miliardi dal Bayern Monaco, fu la mossa azzeccata, avendo cancellato in poche partite le due stagioni opache di Rumenigge. Un acquisto prezioso, tanto che grazie al numero 10 di Erlangen che segnò il gol scudetto contro il Napoli l’Inter poté fregiarsi del titolo. Un giocatore completo, decisivo, di respiro internazionale che l’anno dopo vinse il Mondiale con la Germania e Pallone d’Oro. L’arrivo del coriaceo attaccante e di Brehme furono la risposta al Milan e ai suoi tre olandesi che nelle due stagioni precedenti (con Gullit e van Basten, tre Palloni d’oro in due in tre anni consecutivi) avevano portato alla rivoluzione di Arrigo Sacchi.
Altro giocatore determinante fu Nicola Berti, 21 anni ed una stagione pazzesca. Ancora oggi il video del suo gol contro il Bayern Monaco nella partita di andata di Coppa Uefa partendo da…casa sua è cliccatissimo. Berti, capello ingellato e l’aria sbarazzina, fu uno dei punti nevralgici dell’Italia di Vicini nel Mondiale italiano dell’anno successivo.
Degne di nota anche le prestazioni di Zenga, allora il miglior portiere del Mondo; della coppia collaudata di difensori Bergomi-Ferri, il centrocampo guidato da Matteoli e Brehme e in attacco i gol di Ramon Diaz. E pensare che l’ex Avellino e Fiorentina non doveva neanche venire all’Inter perché la Beneamata aveva optato per il “tacco di Allah”, Rabah Madjer, ma l’algerino non superò le visite mediche. Un bel ripiego.
E poi c’era lui, Giovanni Trapattoni, il sesto allenatore acapace di vincere due scudetti con due squadre diverse. Uno stratega del calcio italiano degli anni Settanta-Ottanta, taciuto di essere un “catenacciaro” ma che in nerazzurro si tolse la soddisfazione di vincere e convincere e diventando uno dei migliori allenatori della storia del calcio, non solo italiano. Ed è grazie a lui se una squadra come quella Inter è diventata una “Football Legend”.
Un’altra “Football Legend” potrebbe essere l’Inter di Mourinho che nella stagione 2009/2010 realizzò il triplete, vincendo nella stessa stagione calcistica scudetto, Coppa Italia e Champions League. Ma di questo, magari, ne parleremo un’altra volta.