Football Legend, La Longobarda di Oronzo Canà

Football Legend La Longobarda

Italia, Paese di santi, poeti, navigatori…e amanti del gioco del calcio. Sono poche le Nazioni al Mondo che mettono al primo posto il calcio tra gli argomenti di discussione al bar, in cucina, tra amici o in ufficio. Il calcio da noi si vede ovunque, ma in un luogo questo sport ha avuto sempre poco spazio: il cinema. I film degni di nota sul calcio nel nostro Paese sono pochi: i mitici “Il Presidente del Borgorosso Football Club”, “Il tifoso, l’arbitro e il calciatore” ed “Eccezzziunale…veramente“, i drammatici “Ultrà” e “L’uomo in più“, fino agli strampalati “Paulo Roberto Cotechinho centravanti di sfondamento” e “Mezzo destro mezzo sinistro – Due calciatori senza pallone“.

Eppure c’è un film dell’ottobre 1984, firmato da Sergio Martino, che ha fatto la storia del cinema italiano ed è incentrato sul calcio. Un film epico, un cult per gli appassionati del genere, un film che ancora oggi quando viene dato in tv lascia incollati davanti allo schermo milioni di italiani. Stiamo parlando de “L’allenatore del pallone” interpretato da Lino Banfi nei panni di Oronzo Canà, tecnico della Longobarda, una squadra (si presume) del Nord Italia che al termine del (finto) campionato 1983/1984 fu promossa per la prima volta in Serie A. Questa volta la rubrica Football Legend, dopo aver trattato il cartone animato “Holly e Benji”, è dedicata ad una squadra che ancora oggi è ricordata come sinonimo di provinciale sgangherata ed impreparata, ma che ha segnato una generazione di italiani (e i suoi nipoti): la Longobarda.

L’allenatore di questa squadra con la maglia bianca e con un altrettanto strampalato sponsor è, come detto, Oronzo Canà, allenatore nativo di San Severo con un passato da calciatore come “mediano di rottura” che gli valse il soprannome di “volpe del Tavoliere” e con alle spalle molte panchine in Serie B (Bari, Brescia, Cavese, Foggia, Pescara, Sambenedettese e Parma, tutte squadre in quegli anni protagoniste in Serie B da come si può vedere dai gagliardetti delle squadre appesi in salotto oltre a tante foto in bianco e nero con i campioni degli anni Settanta) ma senza arrivare in massima serie. Il destino di Canà si lega a quello del presidente della Longobarda, il commendator Borlotti, “un impulsivo, un istintivo”, che in diretta al “Processo di Biscardi”, invitato per raccontare il miracolo dalla sua compagine, annunciò che il nuovo allenatore per la stagione successiva sarebbe stato proprio Canà al posto dell’ex Marcello Gangheri che aveva già firmato con un’altra squadra di Serie A. Il diretto interessato, seduto a tavola, non appena sentì la notizia svenne e cadde per terra. Il desiderio dello scarso tecnico pugliese si stava realizzando: allenare per la prima volta in Serie A con la possibilità di coronare il suo sogno di incontrare il suo idolo, il “barone” Nils Liedholm, allora sulla panchina del Milan cui Canà si ispirava nello solo nella postura ma anche (non riuscendoci) nel self control.

Canà era un allenatore particolare non solo nel tipo di allenamento, ma anche nella conduzione tattica: il tecnico si vantava di essere l’inventore della “b-zona”, un modulo basato su un improbabile 5-5-5. Una sorta di “calcio totale” olandese in salsa comica che voleva prendere in giro i moduli degli allenatori di quel tempo.

In campo il protagonista assoluto era invece un attaccante brasiliano alto e abile con il pallone visto giocare dalla tribune del “Maracanã” di Rio de Janeiro, Aristoteles (interpretato da Urs Althaus). Chiara parodia di Socrates, Aristoteles fu il perno della squadra nonché il più giocatore più forte. Grazie ai suoi gol, la Longobarda dopo un avvio shock (debutto contro la Roma con sconfitta per 5 a 1 con suo gol iniziale e tre miseri punti conquistati nelle prime sette giornate, tutti in casa, con la panchina di Canà che iniziava a vacillare), riuscì ad arrivare nelle parti alti della classifica. Peccato che a causa di infortunio di Aristoteles, causato dal capitano della Longobarda e suo rivale, Speroni (nonché amante della moglie di Borlotti); la squadra senza di lui ebbe un’involuzione spaventosa ed in piena zona retrocessione.

Dopo aver battuto la Lazio nella penultima giornata, bastava solo vincere contro l’Atalanta alla ultima giornata per rimanere in Serie A. Peccato che alla vigilia della partita Borlotti disse a Canà di far perdere la Longobarda e di non far giocare assolutamente Aristoteles così sarebbe retrocessa visti i costi esorbitanti che aveva sostenuto durante tutta la stagione e Canà sarebbe rimasto in Serie B con ingaggio aumentato, sebbene lo avesse preso con lo scopo di andare giù vista l’inadeguatezza del tecnico certo del suo fallimento date le precedenti esperienze. Canà ci rimase molto male non solo perché il suo sogno stava finendo male e nella maniera peggiore. Dopo un iniziale “signor sì”, la voglia di rivalsa del simpatico allenatore foggiano ebbe la meglio e vennero fuori il suo coraggio ed il suo orgoglio che, sull’1 a 0 per la Dea, mise dentro il giocatore brasiliano che segnò, negli ultimi minuti, i due gol della vittoria e della permanenza in serie A, alla faccia di Borlotti. Il film si conclude con la festa dei tifosi e l’addio (sui generis) tra Canà e Borlotti.

Cosa avrebbe di speciale un film incentrato sulla rivincita di un uomo che mette davanti a sé l’onore rispetto ai soldi e che salva la Cenerentola del campionato con un giocatore scoperto su un calcio polveroso brasiliano? “L’allenatore nel pallone” dal primo all’ultimo minuto è un concentrato di battute storiche e di scene che rimarranno per sempre nella mente degli italiani. Del resto, se ancora oggi è ancora visto un motivo ci sarà.

Oltre a Canà ricoprono un ruolo importante i due falsi mediatori Andrea Bergonzoni e Giginho (interpretati da Andrea Roncato e Gigi Sammarchi), che prendono in giro Canà millantando in Brasile conoscenze che non avevano e che, invece, cercarono di truffare fingendo di portare in Italia Junior (usufruendo di un autografo del giocatore su un fazzoletto e fatto passare per un contratto vero e proprio) e poi Éder , usando in entrambi i casi sempre doppi sensi italo-portoghesi per trarre in inganno Canà. Epica è la descrizione di Giginho “fratello di leite” (“lecce”) di Junior, Socrates ed Éder, nonché uomo “con le mani in pasta”. Peccato che quella descrizione non voleva dire che avesse i contatti giusti e che conoscesse l’ambiente, ma che vendeva bibite e snack durante le partite del campionato brasiliano. E grazie a loro, per incontrare quello che si rivelerà essere un omonimo del “dottore” passato alla Fiorentina, Canà si fece operare di appendice, scoprendo che il Socrates di Rio era un medico gastrico di fama internazionale e non un ortopedico come il barbuto centrocampista passato nel mentre alla Fiorentina.

Degni di nota sono anche la moglie di Canà, Mara (fantastico il dialogo surreale tra Canà e la centralinista del “Maracanã” per chiamare da lì sua moglie in Italia) attenta ai soldi e ad arredare la casa all’ultima moda; la figlia Michelina, innamorata corrisposta di Aristoteles) e la suocera, che, nonostante fosse un ex mezzo soprano, praticava anche la magia vodoo ed ebbe effetto contrario la magia sul pallone calciato da Zico in allenamento (la Longobarda avrebbe dovuto vincere 4 a 0, ma invece perse con una quaterna dell’asso brasiliano), il giornalista Ceretti che non sopportava Canà e tutti gli incapaci nel mondo del calcio.

Ma il punto di forza del film è la presenza di veri giocatori dell’epoca: Luciano Spinosi (che scambiò Canà per Ezio Pascutti), Roberto Scarnecchia, Oscar Damiani e Sergio Santarini visti da Canà al calciomercato, gli allora calciatori della Roma Odoacre Chierico, Roberto Pruzzo (per cui Canà aveva una stima profonda non ricambiata), Francesco Graziani, Carlo Ancelotti e Zico; i giornalisti televisivi Giampiero Galeazzi, Fabrizio Maffei (telecronista dell’ultima partita in Serie B della Longobarda contro la Sambenedettese, ma che nei fatti era Samb-Pistoiese), Aldo Biscardi, Giorgio Martino e Gianfranco Giubilo, oltre a Nando Martellini che fece la radio-cronaca dell’ultima partita di campionato. Per non parlare di Giancarlo de Sisti, il celebre “Picchio”, che grazie all’intermediazione di Bergonzoni si incontrò con Canà per discutere su un possibile pareggio “concordato” tra la sua Fiorentina e la Longobarda in quote “fifty fifty”: de Sisti capì che l’incasso della partita sarebbe stato diviso a metà e dato in beneficenza all’UNICEF e la Viola vinse 5 a 0.

Anche la Longobarda aveva giocatori di un certo calibro: i forti Mengoni e Falchetti ceduti per pochi spicci alla Juventus quando Borlolotti aveva promesso di non cederli salvo poi immischiandosi in assurde trattative che avrebbero visto l’arrivo di Platini, Rummenigge e Maradona (per avere Maradona tre anni dopo, Borlotti avrebbe preso i trequarti di Gentile, i sette ottavi di Collovati, la metà di Mike Bongiorno e via subito Mengoni e Falchetti a Torino), capitan Speroni, prima assist man per Aristoteles e poi, visto che il brasiliano lo aveva adombrato, si vendicò di lui facendogli male apposta in campo, la coppia Sella e Cavallo (portiere ed ala) fino al mitico Fulgenzio Crisantemi, giocatore tutt’altro che forte acquistato dalla Longobarda nel mercato di novembre e dotato non solo di una flemma incredibile ma anche dai tratti somatici che rispecchiavano la malasorte (volto bianco, capelli e baffi neri, numero 13 sulla maglia).

La Longobarda aveva anche dei propri tifosi, sugli spalti come tra le forze dell’ordine: i capi dei tifosi erano due gemelli che detestavano e amavano Canà alla stessa maniera. Dai due pomodori schiacciati sul naso all’averlo percosso in stazione fino a portarlo in trionfo “facendogli male” dopo aver raggiunto la salvezza.

Il bello della pellicola fu anche il rapporto padre-figlio Canà-Aristoteles, che soffriva di saudade e che non era ben voluto dai compagni. Canà sapeva di avere tra le mani un ragazzo forte con i piedi ma debole nella vita di tutti i giorni e lui lo adottò come se fosse un secondo figlio. E lui, dopo che in ritiro Canà gli suonò una canzone a metà tra il brasiliano e il pugliese, ripagò l’affetto e la fiducia con gol pesanti che diedero fiato alla squadra e poi la salvezza. Di lui si innamorò Michelina che sembrava avere trovato l’amore dopo tante storie finite male perché il padre veniva sempre esonerato e doveva sempre cambiare squadra. Grazie alla figlia, Canà “sciolse” il ricatto di BorLolotti e mise in campo Aristoteles al posto di Speroni.

Ma il top della pellicola riguarda gli spalti: tutte le immagini del film sono tratte da partite giocate durante il campionato precedente e quello precedente ancora, anche perché la Longobarda non è mai esistita e Martino, per questo motivo, diede alla Longobarda la maglia bianca, perché erano bianche le maglie di riserva di molte squadre italiane dell’epoca e quindi, ogni domenica, una squadra con la maglia bianca giocava sempre ed era facile far finta che quelle partite fossero vere e giocate dalla provinciale sponsorizzata dal pessimo pastificio “Mosciarelli”.

“L’allenatore nel pallone”, Oronzo Canà e la Longobarda sono esempi di un calcio che non voleva prendersi sul serio (già il titolo del film è un doppio senso), un calcio simpatico e mattacchione che canzonava la serietà di un mondo allora troppo ingessato. Per non parlare del nome : “Oronzo” come Oronzo Pugliese, mitico allenatore pugliese degli anni Sessanta-Settanta noto per la sua verve, i riti scaramantici (che Banfi riportò) e per il fatto che fosse un tecnico adatto alle provinciali piuttosto che per le grandi squadre.

Un cult deve essere unico nel suo genere e non a caso non fu mai più girato un film simile, se non un sequel dello stesso nel 2008 che era la bruttissima copia dell’originale, nonostante Banfi interpretò ancora magistralmente quello che era stato il “vate della Daunia”.

Quentin Tarantino è un fanatico dei film cult italiani degli anni Settanta-Ottanta e chissà se ha mai visto questo grandissimo film che ha cambiato il modo di vedere e di intendere il calcio in Italia.