Gigi Meroni e il suo Torino
Corso Re Umberto è un’arteria stradale molto importante di Torino: lungo oltre tre chilometri, attraversa il quartiere Crocetta per poi diventare corso Galileo Ferraris. Per i tifosi juventini quest’ultimo è una strada nota in quanto ha sede la loro squadra del cuore. E Torino, si sa, è divisa in due: Juventus e Torino, con prevalenza dei granata. Questo corso, vicino alla fermata del pullman 258, di fronte al civico 46, è un luogo caro ai tifosi del Torino.
Il motivo? C’è un cippo commemorativo particolare. Un blocco di granito tendente al colore granata con in cima un campo di calcio stilizzato con accanto un pallone e sotto una fotografia in bianco e nero di un ragazzo con la barba ed i capelli lunghi, un fermo immagine anni Sessanta. Quel cippo è dedicato alla memoria di Luigi Meroni detto “Gigi”, di professione calciatore. Anzi, di professione “calciatore del Torino”. Perché dedicare un “monumentino” ad un giocatore? Semplice, perché in quel tratto di strada, la sera del 15 ottobre 1967, l’allora 24enne Gigi Meroni trovò la morte in un incidente stradale. Ancora oggi, a distanza di cinquantuno anni, in Italia, e a Torino in particolare, dire il nome “Gigi Meroni”, soprattutto per le persone con i capelli grigi, significa ricordare un ragazzo strappato troppo giovane alla vita in un attraversamento pedonale azzardato. Lo spazio “FL” di questa settimana è dedicato a lui, alla “farfalla granata”, e cercheremo di mettere in luce il “Meroni calciatore”, ma anche il “Meroni uomo”. E proprio su questo ci soffermeremo di più.
Ma prima dobbiamo fare un rewind storico e partire da Como, il 24 febbraio 1943, giorno di nascita di Luigi. Secondo di tre figli, in casa Meroni non si stava molto bene economicamente: il padre morì quando Luigi era molto piccolo e la madre per campare faceva la tessitrice. Grazie a lei. Meroni, prima di diventare un calciatore, si dedicò al lavoro di disegnatore di cravatte. Era chiaro che Luigi sin dalla giovane età era attratto dall’arte e dall’estrosità.
Come tutti i ragazzini, Meroni giocava a calcio all’oratorio ma era bravo e venne segnalato alla squadra della sua città, il Como, allora militante in Serie B. Appena diciottenne, mister Baldini lo fece debuttare in prima squadra: ala destra, il ruolo in campo che lo renderà uno dei migliori interpreti a livello nazionale.
Meroni iniziava a piacere e nell’estate 1962, quella post Mondiale cilena, il giovane centrocampista partì dal lago per andare al mare: venne tesserato dal Genoa, neopromosso in Serie A dopo due anni di purgatorio in serie cadetta. Meroni lasciava il calmo lago di Como per approdare nella città di mare più famosa d’Italia. Erano bastati due anni di B per portarlo a giocare in Serie A.
Il salto fu notevole, non dal punto di vista calcistico (il Genoa era lontano parente di quello del passato), ma personale. Il giovane Gigi entrò subito in sintonia con la città, entrandovi in simbiosi. Sotto la Lanterna, Meroni rimase due stagioni: la prima fu deludente, la seconda no. E sotto la direzione di mister Benjamín Santos, Meroni divenne uno dei giocatori più interessanti del panorama calcistico nazionale, alla ricerca di talenti da inserire nel grande calcio.
Il primo anno fu negativo, mentre il secondo fu ricco di soddisfazioni grazie anche al tecnico argentino che vedeva in lui il giocatore giusto per far fare alla squadra finalmente il salto di qualità.
Fra il mister e Meroni il rapporto fu molto intenso, ma il giocatore non era destinato a rimanere a lungo in rossoblu e due estati dopo andò al Torino per ben 300 milioni di lire. I tifosi genoani non volevano la cessione del loro idolo e scesero in piazza a protestare. La notizia della sua cessione fece tornare dalle vacanze addirittura l’allenatore argentino che partì dalla Spagna alla volta della Lanterna per chiedere spiegazioni alla società e dimettersi. Non ci riuscì: morì durante il viaggio verso l’aeroporto in un incidente stradale.
A contribuire alla bellissima stagione di Meroni si mise anche la vita privata: Luigi Meroni era legato sentimentalmente a Cristiana, figlia di una famiglia di giostrai della città. Nulla di particolare, se non che Cristiana era separata dal marito ed era in attesa dell’annullamento del rito nuziale e nell’Italia della prima metà degli anni Sessanta ciò era una cosa vista in malo modo, una cosa da condannare: una donna sposata che viveva in casa con un uomo che non era suo marito.
Il divorzio in Italia arriverà soltanto nel 1970 e prima di allora chi viveva nella condizione di Meroni era additato come un incosciente, pazzo e anticlericale. Gigi però era innamorato di quella ragazza e i risultati sul campo andavano a gonfie vele.
Nell’estate 1964 Meroni passò ad un’altra grande nobile decaduta del calcio italiano, il Torino. La squadra torinese dopo la strage di Superga (4 maggio 1949), dove morì il Grande Torino, non era riuscita ad essere competitiva e viveva nel ricordo della squadra che riscrisse la storia del calcio negli anni Quaranta.
A capo del Torino c’era Orfeo Pianelli, imprenditore nel ramo meccanico, e in panchina c’era un allenatore molto preparato e già campione d’Europa alla guida del Milan, Nereo Rocco. Pianelli era uno ambizioso e quell’estate portò sotto la Mole granata oltre a Fossati, Brighenti e Simoni anche due ventunenni che tre anni dopo avrebbero incrociato i loro destini, Luigi Meroni e Alberto Carelli.
Gigi Meroni però “partiva male” in casa Torino: il destino voleva che si chiamasse come lo sfortunato pilota del volo Lisbona-Torino che si schiantò sulla collina di Superga. Nonostante questa coincidenza, Meroni rimase in granata tre stagioni complete e le prime quattro giornate della stagione 1967/1968.
Meroni ebbe come allenatore, per le prime tre stagioni, il Paron e nell’ultima Edmondo Fabbri. Sì, “Mondino”, il Ct della spedizione azzurra al Mondiale inglese del 1966, cui Meroni prese parte venendo convocato dal tecnico emiliano ma con cui non andò d’accordo. E il motivo era semplice: a Fabbri non piaceva il look di Meroni e in molte occasioni lo esorterò a darsi una sistemata sennò non lo avrebbe chiamato in Nazionale.
Eppure gli anni granata sono i migliori per Gigi Meroni: sulla fascia destra comandava lui, nessuno lo marcava, nessuno lo fermava e nelle prime tre stagioni segnò ben 27 reti complessive, diventando il beniamino di tutti, sopratutto delle tifose cui piaceva questo ragazzo alto e magro, con i capelli lunghi e/o con i baffi o con la barba incolta. Un personaggio insolito questo Meroni. Se Meroni avesse avuto 24 anni negli anni Duemila il suo stile privato sarebbe passato in secondo o terzo piano, ma nell’Italia di allora era un personaggio strano: ascoltava la nascente musica beat, aveva capelli e barba incolta, era un pittore e si disegnava i capi di abbigliamento, aveva una macchina degli anni Trenta. In più girava per la città con una gallina al guinzaglio, abitava con una donna sposata e si fingeva giornalista andando ad intervistare gli abitanti di Torino chiedendo loro un parere su Gigi Meroni, che non si accorgevano che fosse lui stesso a chiedere un parere…su di lui.
Gli anni sotto la Mole sono gli anni della “farfalla granata”, la risposta italiana (con le dovute proporzioni) a George Best, il giocatore nordirlandese del Manchester United archetipo del calciatore diviso tra sesso, alcool e musica pop. Cosa lega Best con Meroni? Poche cose, se non lo stesso numero di maglia (il 7) e la maglia fuori dai pantaloncini e i calzettoni abbassati. Per il resto, erano il diavolo e l’acqua santa. Fedele alla sua Cristiana, fedele al Torino, al “Filadelfia” e al Comunale.
L’estate 1967 poteva essere molto calda per la città di Torino. Il motivo? La Juventus si era interessata a Gigi Meroni e quando la Vecchia Signora si muoveva per un giocatore, quel giocatore la stagione successiva avrebbe indossato la maglia bianconera. A spingere la Juventus verso Meroni furono i tre campionati con la maglia dei “cugini”, in particolare dopo un gol clamoroso segnato all’Inter a San Siro: era il 12 marzo 1967 e Meroni segnò un gol clamoroso a Sarti dopo un’azione altrettanto clamorosa lasciando al loro posto gente come Burgnich e Facchetti. Il Toro vinse e l’Inter perse dopo 57 partite utili consecutive tra le mura amiche.
Giovanni Agnelli volle fortemente Meroni, tanto da mettere sul piatto ben 750 milioni di lire dell’epoca: un’enormità. Pianelli vacillò, perché 750 milioni erano sempre 750 milioni, ma cedere Meroni significava inimicarsi la tifoseria nonché mettere a dura prova il servizio pubblico cittadino, perché i tifosi granata non gliel’avrebbero perdonato. Meroni non manifestò mai la volontà di passare ai cugini, rimase in granata e pronto a ripartire di slancio nella nuova stagione, la 1967/1968, quella che avrebbe portato il Mondo verso la Contestazione.
Il Torino nelle prime quattro giornate conquistò cinque punti e Meroni segnò una rete alla Sampdoria il 15 ottobre. I granata schiantarono in casa la Sampdoria di mister Bernardini con un perentorio 4-2, con tripletta dell’argentino Che squadra, quel Toro: Lido Vieri in porta, difesa con Fossati e Poletti, centrocampo con capitan Ferrini e Moschino e davanti il tandem Meroni-Combin, fino a quel momento in rete quattro volte.
La settimana dopo il match con i doriani, i ragazzi di Fabbri avrebbero fatto visita alla Juventus di Heriberto Herrera campione d’Italia. Un derby quello della Mole molto sentito che il Torino non vinceva, ironia della sorte, da quando Meroni si era trasferito al Torino. Meroni avrebbe affrontato quelli che sarebbero potuti essere i suoi tifosi. Il Torino vinse 4-0 in casa dei bianconeri, ma Meroni non disputò l’incontro. Non giocò non per scelta tecnica, ma perché in corso Re Umberto successe qualcosa di grave sette giorni prima.
Facciamo un flash back alla sera del 15 ottobre. Il Torino aveva vinto il match contro la Sampdoria e mister Fabbri aveva lasciato, stranamente, la serata libera alla squadra. Meroni era al bar con l’amico (e compagno di squadra) Poletti. Dovevano tornare a casa, uscirono dal bar ma Meroni si accorse di non avere le chiavi di casa. Chiamò la fidanzata Cristiana dall’esercizio, dicendole che era senza chiavi e che sarebbe tornato a casa presto.
I due giocatori uscirono ancora una volta dal bar, attraversarono il corso ed arrivarono in mezzo alla carreggiata. Dalla corsia di destra arrivavano macchine e per loro sarebbe stato difficile attraversare.
Ed ecco il momento più tragico: i due giocatori fecero istintivamente, senza guardare a sinistra, un passo indietro e furono travolti una Fiat 124 Coupé.
Poletti venne toccato appena dalla macchina, mentre Meroni centrato in pieno, sbalzato per aria ed atterrò nell’altra corsia. Nel mentre stava passando un’altra autovettura che lo trascinò per diversi metri. Si formò un capannello intorno al giovane calciatore che fu portato d’urgenza al Mauriziano. Le ferite erano troppo grosse e, intorno alle 22:30, Meroni spirò in ospedale. Aveva 24 anni.
La città cadde nella disperazione: era morto nella maniera più tragica il giocatore italiano più talentuoso e di sicuro avvenire.
Ai funerali parteciparono oltre ventimila persone tra torinisti, torinesi e gente comune da tutta Italia per rendere omaggio al calciatore beat, il numero 7 dal look anticonformista. Per il Toro, un tragico flash back ai funerali del Grande Torino.
Eppure qualche voce fuori dal coro si levò prima che si tenessero le esequie: vivendo con una donna già sposata, il vescovo di Torino era contrario al fatto che si potessero tenere in Chiesa i suoi funerali. Invece la funzione si tenne ugualmente così che la città, e l’Italia calcistica, potessero rendere il doveroso omaggio ad un ragazzo di 24 anni morto per una distrazione.
Fu una partita strana il derby di domenica 22 ottobre, giocata in un “Comunale” pieno ma silente per rispetto. Quella partita fu storica, anche per il risultato: 4-0 granata con tripletta di Combin e ultima rete siglata da Alberto Carelli. Che numero di maglia aveva Carelli? La 7, lasciata libera da Meroni. Si disse che quel il centrocampista di Como avesse spinto la palla in porta e aiutato il compagno nel giocare la partita più importante con un numero di maglia di una pesantezza psicologica non da poco. Quella stagione il club di Pianelli si classificò al settimo posto, vinse la Coppa Italia e si qualificò per la successiva Coppa delle Coppe.
Dopo di allora e fino al 2000, i granata vinsero uno scudetto, tre Coppe Italia ed arrivarono ad un incredibile finale di Coppa Uefa contro l’Ajax, disputando anche quattro campionati di Serie B
Proprio quell’anno, il Torino vide un altro cambio alla presidenza: tra il periodo d’oro di Borsano ed il primo anno del nuovo secolo, si alternarono sulla poltrona più importante del club ben cinque presidenti. Nel 2000, il Torino si divise tra un proprietario (Francesco Cimminelli) e un presidente (Aghemo). Il 13 giugno successivo Aghemo passò il timone all’imprenditore torinese Attilio Romero. La notizia arrivò come un fulmine a ciel sereno sulla città: era stato l’allora diciottenne “Tilli” Romero ad investire Gigi Meroni.
I supporter granata dissero che metterlo alla guida del club sarebbe stata davvero una mancanza di rispetto e sensibilità verso il calciatore ed i suoi famigliari. Romero rimase presidente fino al 2005 per poi cedere la società ad Urbano Cairo, imprenditore alessandrino ancora oggi al timone del club. Romero, in diverse interviste, disse che aveva un’immagine di Meroni in macchina, nel portafoglio come un “santino” e aveva partecipato alla manifestazione per evitare che la società lo cedesse alla Juventus. Un incubo, quello della morte di Meroni, che lo segnò per tutta la sua vita.
Nel 2007, nel luogo dell’incidente che costò la vita a Meroni, l’amministrazione comunale di Torino (guidata allora da Sergio Chiamparino, tifoso granata) decise di onorare la memoria dello sfortunato giocatore con un cippo, ancora oggi meta di nostalgici del Toro e gente che, anche senza averlo mai visto giocare, ha ancora oggi Meroni nel cuore.
Con la morte di Meroni si assistette ad una sorta di devozione totale verso un giocatore che non era ancora arrivato alla consacrazione nazionale, ma che per i tifosi granata era già nell’Olimpo del Torino. La sua morte lo consacrò a idolo di una generazione che l’anno dopo avrebbe toccato l’apogeo con la Contestazione, con il Sessantotto e l’aria rivoluzionaria che era partita dagli States e che arrivò con un tornado in Europa.
Dribblatore seriale, veloce ed imprevedibile, chissà cosa avrebbe fatto in carriera se non avesse attraversato imprudentemente un corso trafficato di Torino. Un azzardo, una cosa magari fatta sempre, ma che quella sera gli costò la vita.
Il calcio italiano e il Torino da allora ha avuto migliaia di giocatori, ma nessuno fu mai come Gigi Meroni il ragazzo partito da Como e che ha fatto la storia del nostro calcio e di un modo di vivere che ha fatto storia.
Gigi Meroni era un beat, ma era un punto di riferimento per tutti, amato e voluto bene e forse per questo ancora oggi si pensa a come sarebbe stato il calcio italiano con uno come Meroni.
Questa è stata la “farfalla granata”, volata via in una fredda sera di ottobre ma atterrata nel cuore e nella mente di tutti quelli che l’hanno vista giocare e volare lungo la fascia destra.