Football Legend, George Best

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Football Legend George Best

Ci sono numeri di maglia che hanno fatto storia del calcio: il “14” dell’Ajax, il “10” del Santos, della Juventus e del Napoli o il “3” ed il “6” del Milan. In casa Manchester United, il numero sacro per i tifosi è il “7”. Tra il 1963 ed il 1974 quella maglia per molto tempo (non esistevano ancora le maglie “personalizzate”) appartenne ad una vera leggenda del calcio, uno che ha fatto innamorare molti tifosi e molte tifose. Uno che ha scritto una grande pagina di calcio negli anni beat, dei Beatles e della swinging London. Uno che ha speso tanti soldi per alcool, macchine veloci e donne e che il resto li ha sperperati. Stiamo parlando di George Best, uno dei primi divi del calcio.
Nordirlandese di Cregagh, sobborgo di Belfast, Best legò la sua (breve ma intensa) carriera di calciatore alla maglia del Manchester United. Di estrazione working class, il giovane George manifestò da subito l’inclinazione al football piuttosto che al rugby, tanto che spesso scappava dalla scuola dove era iscritto perché preferiva la palla ovale a quella tonda. O meglio, lui preferiva qualsiasi cosa che potesse rimbalzare per poterla prendere a calci, dalla palla di plastica ad una da tennis.
Best giocò nelle squadre della periferia della capitale e venne scartato dal Glentoran per il suo fisico considerato debole e non all’altezza. Peccato che poco dopo verrà osservato da uno scout del Manchester United allora allenato da Matt Busby durante una partita dei campionati locali. L’osservatore dirà al tecnico scozzese di aver trovato un campione (“un genio” dice la vulgata). Fu “scritturato” a quindici anni, ma l’inizio fu duro: il giorno stesso del ritiro, George Best tornò a Cregagh impaurito dalla metropoli. Il ragazzo rinsavì grazie al padre ed il fu “gracile” Best a 17 anni debuttò in First Division il 14 settembre 1963 contro il West Bromwich Albion. Il 28 dicembre successivo siglò la sua prima rete in campionato contro il Burnley. Da militante nella squadra “Primavera”, in poco tempo passò a giocare in prima squadra.
Il nome di Best iniziò a girare tra gli addetti ai lavori come uno dei maggiori talenti del calcio britannico e questi ebbero ragione: vestì la maglia dello United fino al 1974, entrando nell’immaginario collettivo come uno dei più grandi calciatori della storia. La “7” non la indossò sempre, in undici stagioni collezionò 473 presenze con 181 reti. Con l’asso irlandese in squadra (oltre a gente del calibro di Charlton, Law e Kidd), i Red devils vinsero due titoli nazionali, una Coppa d’Inghilterra, due Charity Shield, una Coppa dei Campioni, oltre a due secondi posti ed una finale persa di Charity Shield e di Coppa Intercontinentale. Non vinse mai la FA Cup, vero cruccio della sua carriera.
Le miglior stagioni le disputò tra il 1965 ed 1968. Nella prima, Best fu determinante nei quarti di finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusebio giocata al “Da Luz” il 9 marzo 1966: una doppietta contro una delle squadre più forti d’Europa con in bacheca due Coppe dei Campioni e altrettanti finali. Quel giorno l’ala nordirlandese segnò le prime due reti della goleada contro le “aquile” di Lisbona: il Mondo conobbe quel ragazzo che arrivava da una famiglia operaia protestante del Nord Irlanda e che aveva fatto ammattire i difensori di una squadra fra le più forti dell’epoca prima con un gol di testa e poi con un grande diagonale nei primi tredici minuti dell’incontro. I giornali portoghesi lo definirono, O’ Beatle, il Beatle. Lo United si fermò poi in semifinale eliminato dal sorprendente Partizan Belgrado, ma Best era ai box per un infortunio e chiuse in anticipo la stagione.
Ma il clou fu la stagione 1967-1968: il Manchester era campione d’Inghilterra in carica, Best vinse la classifica marcatori in First Division (28 reti), vinse la Coppa dei Campioni (prima squadra inglese a vincere il trofeo, dieci anni dopo il disastro aereo di Monaco di Baviera del 6 febbraio 1958, nel quale persero la vita 23 giocatori dello United), vinse il titolo di miglior giocatore del campionato. A dicembre Best fu insignito del Pallone d’oro davanti al compagno di squadra Bobby Charlton ed a Dragan Džajić della Stella Rossa di Belgrado. Divenne il quarto giocatore britannico a vincere il premio dopo Stanley Matthews, Denis Law e Bobby Charlton.
La stampa rimase impressionata dalle abilità di quel giocatore non particolarmente dotato fisicamente, coi capelli lunghi al collo, le basette folte e gli occhi azzurri. Nacque il mito del “quinto Beatle”, il mito di colui che finì nelle pagine di gossip al pari di quanto andasse nei tabellini delle partite. Il mondo del calcio era ai piedi di quel ragazzino di appena 22 anni che aveva fama, soldi, auto veloci, abiti costosi e donne. A volontà.
L’anno dopo Best spinse lo United alla semifinale di Coppa dei Campioni persa contro il Milan e segnò regolarmente tra il 1969 ed il 1972 (95 gol totali): il clou fu il match del quinto turno di FA Cup contro il Northampton, datato 7 febbraio 1970, dove siglò sei delle otto reti che i Red devils segnarono ai malcapitati avversari: due gol di testa e quattro di destro.
Ma la carriera del giocatore prese una brutta piega, caratterizzata dall’uso sconsiderato di alcool e da comportamenti tutt’altro che da collegiale. La sua ultima partita in maglia Red devil fu data 1° gennaio 1974 contro il Queens Park Rangers. Nelle ultime due stagioni a Old Trafford segnò solo otto reti, giocando trentacinque volte. Il giocatore iniziò a manifestare segni di insofferenza e di cattiva gestione del carattere (notti brave, ritardi e assenze agli allenamenti, troppa poca disciplina in campo) ed “alzava il gomito” un po’ troppe volte. In aggiunta, proprio la sua ultima stagione coincise con un’amara retrocessione in Second division della squadra, da qualche tempo troppo deludente: lo United in pochi anni aveva smantellato la squadra, si era indebolito molto e Best aveva perso la verve.
Lasciava Old Trafford uno dei giocatori più forti ad aver vestito la maglia rossa nata nel 1878. Da quel momento la numero “7” è stata una maglia difficile da indossare e solo i giocatori più grandi del club hanno avuto l’onore di indossarla (Bryan Robson, Eric Cantona, David Beckham, Cristiano Ronaldo).
Fino al 1984 giocò in dieci squadre diverse tra Inghilterra (Stockport County, Fulham e Bournemouth), Irlanda (Cork City), NASL (LA Aztecs, Fort Lauderdale Strikers e San Jose Earthquakes, Scozia (Hibernians) e Australia (Brisbane Lions) per poi chiudere con i nordirlandesi del Tobermore United. L’idolo mediatico, l’uomo gossip, l’idolo di tifosi e tifose si era ridotto a giocare a gettoni nelle serie inferiori e dove il calcio era solo uno show mediatico senza appeal.
In queste squadre giocò complessivamente 225 partite segnando solo settantatre reti, di cui 57 nella NASL. La stampa inglese non gli perdonò il passaggio al remunerativo campionato americano, considerandolo il luogo giusto dove chiudere la carriera. Eppure il talento di Cregagh credette molto nella NASL: dopo un’iniziale incontro con i New York Cosmos di Pelé e Chinaglia, Best accettò la proposta dei Los Angels Aztecs, dove militò tre stagioni con in mezzo le “pause” con il Fulham in Second division. Nati tre anni prima del suo arrivo (1973) la squadra di L.A non decollò mai nonostante vinse subito il campionato. Il livello scarso della squadra e del poco interesse della città spinse Best ad emigrare in Florida a Fort Lauderdale dove giocò due stagioni consecutive.
Dopo una doppia pausa all’Hibernians, Best giocò con i San José Earthquake. Ma anche negli Usa Best bevve molto ed il dominio dei Cosmos lo spinsero a la sciare gli States e giocare ancora tre anni con Bournemonth, Brisbane Lions e Tobermore United, tra terza divisione inglese, Serie A neozelandese e una presenza in Coppa di Irlanda.
Ebbe poca fortuna con la Nazionale del suo Paese con cui giocò 37 partite tra il 1964 ed il 1981. Siglò solo nove reti e non prese parte al Mondiale spagnolo dove la sua Nazionale arrivò al secondo turno e tornava a giocare la kermesse iridata dopo sei edizioni. Rimane storico il siparietto tra lui e Cruijff in Olanda-Irlanda del Nord del 13 ottobre 1976: Best era lanciato verso l’area oranje quando tornò indietro e puntò il “profeta del gol”. Al giocatore del Barcellona fece una finta e un tunnel, passando la palla ad un compagno. Al termine dell’azione il talento di Cregagh disse al Cruijff che lui era bravo solo perché lui non aveva tempo.
Da 1984 la alcool-dipendenza fece ritirare definitivamente Best dal calcio giocato: il fisico non reggeva, gli eccessi lo avevano debilitato e decise di dire addio allo sport che lo aveva portato alla fama mondiale.
In quegli anni Best trovò conforto solo con birre e superalcolici, dimenticato da tutti, dalle donne bellissime che aveva fatto innamorare, dai (presunti) amici che gli ronzavano intorno quando era famoso. Nel 1991 fu ospite di una trasmissione televisiva dove si presentò ubriaco e fece una pessima figura. Negli anni era arrivato a bere una bottiglia di whisky al giorno.
Nel 2000 fu ricoverato per problemi al fegato e due anni dopo subì un trapianto. Nel 2004 dopo aveva già ripreso a bere ed iniziò ad avere allucinazioni, incubi e tremori improvvisi.
Ma il baratro era stato raggiunto: tre giorni prima della sua morte, avvenuta il 25 novembre 2005, quasi come un malinconico testamento, George Best diede l’autorizzazione al News of the World di fotografarlo sofferente in ospedale con al naso un respiratore, la pelle ingiallita, gli occhi rossi e le occhiaie, con l’intento di far capire a tutti, soprattutto alle nuove generazioni, di non fare la sua fine, di non morire come stava facendo lui. L’immagine fu devastante: l’ex calciatore che aveva avuto soldi, tifo e donne a iosa era ridotto a un povero uomo con il volto ingiallito, con gli occhi spenti, pronto a salutare il Mondo terreno, implorando chiunque avesse avuto una vita eccentrica e piena di vizi di non fare la sua fine perché non ne valeva la pena. Spirò il 25 novembre 2005 e le sue cornee furono donate. Il 30 novembre, prima del match di Carling Cup contro il WBA, ci fu un minuto di silenzio di ricordo del giocatore con in campo gli ex compagni dell’epoca e sugli spalti tutti i tifosi dei Red devils che avevano in mano un mini poster con la sua immagine ed il suo nome. Ironia della sorte: contro la squadra delle West Midlands il talentuoso giocatore nordirlandese aveva debuttato in prima squadra.
La morte di George Best colpì l’opinione pubblica, non solo calcistica: un uomo distrutto dall’alcool fotografato sul proprio letto di morte, povero e lasciato al suo destino. Come a dire: fama e ricchezza non sono nulla se non sei un uomo forte.
Dodici anni fa moriva uno dei giocatori più talentuosi e forti del calcio mondiale del XX secolo. Un’ala destra con il vizio del gol, un ragazzo che ha fatto sognare una generazione intera di tifosi che con i suoi dribbling, il suo stile e la sua visione di gioco, la sua velocità e la sua tecnica sopraffina.
La città di Belfast ancora oggi vive nel ricordo delle bombe dell’IRA degli anni ’70 e del suo concittadino più famoso, il calciatore maledetto: dal 22 maggio 2006 esiste il George Best Airport (l’ex Belfast City Airport, secondo aeroporto della capitale), molti murales hanno come soggetto l’ex numero 7 dello United, la sua abitazione è diventata un museo nostalgico e nel 2000 è uscito un cult movie della regista Mary McGuckian con John Lynch nella parte del (fu) “quinto Beatle”.
Nel cimitero della capitale nord irlandese, accanto al padre Dickie (morto tre anni dopo di lui) e alla madre Anne (morta nel 1978 a 56 anni per un problema vascolare legato, guarda caso, all’alcolismo) c’è il loculo che ricorda George Best, il talento più cristallino del calcio inglese e mondiale.
Il tifoso più morigerato non capirebbe perché un personaggio come George Best sia considerato ancora oggi un’icona. Semplice: in campo si è solo un calciatore e i problemi personali devono essere lasciati nell’angolo, anche perché già dal 1970 Best era alcolizzato anche se in campo non lo faceva capire, non saltava un allenamento e nei novanta minuti di gioco era sempre il migliore in campo.
Su una cosa si è d’accordo: George Best poteva diventare ancora più leggendario di quanto non lo sia stato ed è giusto considerarlo un incompiuto. Eppure Best è stato, come si dice in gergo, “tanta roba”: gol da cineteca, dribbling veloci, nessuna paura dell’avversario anche se fisicamente poteva essere più forte di lui. Dire che George Best abbia cambiato il concetto di calciatore non è esagerato: dopo di lui, il calciatore sarà visto come un divo, amato ed idolatrato dalle folle, come gli dei greci. In campo era divertente e veloce, funambolico e geniale, irriverente e dotato di una classe che lo avvicinava più ad un giocatore brasiliano che non ad uno del Regno unito.
Best è stato figlio dei mitici anni Sessanta. Peccato non sia stato capace di reggere la fama ed il talento snaturato. Del resto non è mai facile essere genio e sregolatezza. Figurarsi per uno che di sé diceva “Pelé good, Maradona better but George Best” e che non ha dovuto scegliere se sarebbe stato meglio segnare al Liverpool o andare a letto con Miss Universo, avendo fatto entrambe le cose.