La Football Legend di oggi, Fernando Redondo
Il 19 maggio 2000 allo stadio “Old Trafford” di Manchester andò in scena il return match dei quarti di finale di Champions League tra i padroni di casa, campioni d’Europa in carica, e il Real Madrid, vincitore la stagione precedente. La partita fu vinta dalle merengues per 2 a 3. Gli spagnoli supereranno poi in semifinale il Bayern Monaco e nella finale dello “Stade de France” di Parigi sconfiggeranno i connazionali del Valencia, vincendo la loro ottava Champions League. In estate prese il via il Real Madrid dei Galacticos.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo a Manchester. I marcatori di quella partita furono Kean con un autogol e Raul (doppietta) per gli ospiti mentre i Red devils accorciarono con Beckham e Scholes su rigore.
Facciamo un altro passo indietro: il terzo gol di Raul al 7′ della ripresa. Il capitano blanco segnò a porta sguarnita con la palla arrivatogli proprio sui piedi.
Facciamo un altro passo indietro: chi ha messo quella bellissima palla a Raul? L’assist lo ha fatto un giocatore che in venti metri ha scritto una pagina indelebile del calcio. Quel giocatore, inspiegabilmente sulla fascia sinistra lui che era un regista, raggiunse la palla e scartò Henning Berg. Il suo tocco mandò la palla quasi a ridosso dell’out di sinistra ma lui, dopo una grande corsa, è arrivato sulla palla in tempo e l’ha messa in mezzo per il suo capitano.
Il gesto con cui scartò il difensore avversario è ancora oggi cliccatissimo su YouTube: un colpo di tacco di sinistro con corsa veloce per recuperare il pallone che era in procinto di finire fuori dal campo con conseguente rimessa dal fondo del portiere. Quel gesto è passato alla storia del calcio come “taconazo”. Un colpo geniale, un colpo non da tutti, un gesto fantastico che solo in uno stadio chiamato “il teatro dei sogni” poteva capitare. Quel tocco è stata la quintessenza del “genio” di monicelliana memoria: fantasia (un colpo di tacco in velocità), intuizione (correre il più veloce per recuperare il pallone), colpo d’occhio (quei venti metri il giocatore li fece a testa alta) e velocità di esecuzione (palla in mezzo all’area di piatto sinistro nell’unico spazio lasciato libero dalla difesa dello United per Raul che stava entrando in area completamente smarcato). Lo spazio Football Legend di oggi è dedicato proprio all’artefice del “taconazo”, Fernando Redondo.
Chi era Fernando Redondo
Argentino di Buenos Aires, anzi di Adrogué, Redondo è stato uno dei centrocampisti più intelligenti di questi ultimi trent’anni. Numero 5 perennemente sulle spalle, il numero di colui che sta in cabina di regia (salvo gli anni al Real Madrid dove aveva il 6), Redondo in carriera ha fatto tutto con il suo sinistro: giocate intelligenti, assist al bacio (vedere la partita appena citata) ed è stato uno degli artefici dei successi europei degli spagnoli tra il 1994 ed il 2000.
Dopo gli inizi fanciulleschi in una piccola squadra di Adrogué, il piccolo Fernando si diede al calcio a cinque, vestendo i colori del Club Atlético Talleres di Remedios de Escalada. Il padre era un imprenditore, non voleva che il figlio giocasse “a cinque” ma “a undici” e per questo motivo lo fece avvicinare all’Argentinos Juniors, la squadra dove stava militando un certo Diego Armando Maradona.
A sedici anni Fernando Redondo debuttò in prima squadra contro il Gymnasia La Plata ma era troppo giovane e finì la stagione con la Primavera delle “formiche rosse”. Ma il dado era tratto, ormai. Quell’anno vinse il Sub16 sudamericano con l’Albiceleste e l’anno dopo prese parte al Mondiale di categoria. Il nome di Fernando Redondo stava iniziando a girare sui taccuini dei direttori sportivi di tutto il Mondo.
A diciotto anni, nel 1987, entrò in pianta stabile in prima squadra e lasciò il club tre anni dopo. Nel mentre, settantacinque partite ed una rete per un giocatore molto maturo di testa e con i piedi, un abile assist man che sapeva in anticipo dov’era il compagno cui passare la palla.
Il 1990 per Redondo fu importante: in estate in Italia si tennero in Italia i XIV campionati del Mondo di calcio e l’Argentina si presentava da campione in carica con una squadra più forte rispetto a quella vincitrice del Mondiale messicano (oltre a Diego Armando Maradona, Burruchaga, Caniggia, Ruggeri e Sergio Batista solo per fare qualche nome).
Fernando Redondo, 21 anni, sarebbe stato convocato dal CT Carlors Bilardo a occhi chiusi e così il tecnico fece, ma il giocatore rifiutò. Cosa spinse un ragazzo considerato come uno dei più promettenti centrocampisti centrali dell’epoca a rifiutare la maglia della Nazionale del proprio Paese per un Mondiale? Il suo percorso di studi in economia. Eh sì, per ultimare i suoi studi di economia, Redondo rimase in Argentina a vedere i suoi compagni arrivare fino alla finale contro la Germania ovest dopo aver eliminato i padroni di casa dell’Italia in semifinale. Il ragazzo era regolarmente iscritto all’università, non volle distrarsi dagli studi, anche se molti sostengono che Redondo, in maniera un po’ arrogante, avesse rifiutato la convocazione in quanto non si sarebbe trovato a suo agio in una squadra che, a suo modo di vedere, era troppo “catenacciara”. Maradona, vera nemesi di Redondo sostenne che era un calciatore viziato.
In quell’estate Redondo approdò in Europa, in Spagna. O meglio, alle Isole Canarie. Nonostante gli interessamenti di tanti club europei, tra cui la Juventus, il centrocampista classe 1969 decise di accasarsi in un club spagnolo di media-bassa classifica, il Tenerife di mister Xabier Azkargorta. Nato nel 1922, nel 1989 il club canario era tornato dopo ventisette anni di assenza in Liga, salvandosi a fine stagione solo tramite i play out.
Eppure quel Tenerife fu storico, perché nelle quattro stagioni in cui il capelluto Redondo vestì la sua maglia, il club ottenne, nella sua terza stagione, un fantastico 5° posto. La squadra di Santa Cruz de Tenerife si qualificò clamorosamente alla Coppa Uefa. Il miglior Tenerife di allora era allenato da Jorge Valdano, successore dalla stagione 1992/1993 di Jorge Solari, con in squadra gente del calibro di Pizzi e Estebaranz. Il piccolo Tenerife arrivò anche in semifinale di Coppa del Re, venendo eliminato dal Celta Vigo.
Redondo, il giocatore più talentuoso e forte dell’intera rosa del club chicharrero, era il direttore d’orchestra ed i tifosi erano in visibilio. Valdano rimase estasiato dalle sue giocate e gli diede i galloni di regista.
Alla prima esperienza europea, il Tenerife si spinse fino agli ottavi di finale, dopo aver eliminato Auxerre e Olympiacos, per poi fermarsi contro la Juventus. Si parlò di “Euro-Tenerife” e Fernando Redondo nelle tre partite europee fece vedere la sua classe e la sua intelligenza tecnica.
Negli anni canari, Redondo fu protagonista con la Nazionale argentina della vittoria nella Confederations Cup nel 1992 a Ryhad (vincendo il premio di miglior giocatore) e la Copa America del 1993 in Ecuador.
Però Redondo a Tenerife era sacrificato e nell’estate 1994 divenne necessario cederlo. Il centrocampista impomatato si spostò dalla periferia al centro del calcio spagnolo venendo tesserato niente meno che dal Real Madrid, la grande di Spagna che allo stadio “Heliodoro Rodríguez López“ aveva rimesso anche un titolo durante gli anni redondiani. Il centrocampista argentino lasciò l’Isola dopo 103 partite ed otto reti. A volerlo fu il suo mentore, Jorge Valdano, nuovo entrenador dei blancos. Obiettivo: riportare il titolo al “Bernabeu” dopo cinque stagioni ed un trofeo europeo dopo altri nove.
Il centrocampista di Buenos Aires arrivò in Castiglia dopo lo sfortunato Mondiale americano della sua Nazionale: centrocampista centrale titolarissimo, Redondo, maglia 5 sulle spalle e compagno di reparto del “Cholo” Simeone, condusse l’Albiceleste fino agli ottavi dove venne eliminata dalla Romania di Hagi, una delle sorprese di quel torneo. Era un’Argentina molto forte guidata in attacco da Maradona e con molti giocatori di spessore tecnico-tattico. Dopo il primo match contro la Grecia, il numero 10 fu trovato positivo all’efedrina, fu squalificato lasciando “orfani” i suoi compagni. La squadra al ritorno in Patria fu molto contestata e nessun giocatore fu risparmiato. Nemmeno Redondo fu esente da fischi e critiche, nonostante avesse servito l’assist per il gol del capitano nel momentaneo 3 a 0 alla compagine ellenica.
Con il Real Madrid, Fernando Redondo divenne…Fernando Redondo: sei stagioni, 213 partite, quattro reti, tre titoli nazionali (due Liga) e il ritorno del club ai vertici del calcio europeo e mondiale. Con il numero 6 in campo, le merengues vinsero la Champions League nel 1998 (in finale contro la Juventus, che riportò la Coppa a Madrid dopo 32 anni di attesa) e nel 2000, con l’aggiunta della vittoria della Coppa Intercontinentale nel 1998.
Gli anni madridisti furono entusiasmanti, con alti e bassi (al termine della stagione 1995/1996 la squadra non si qualificò per le coppe europee e nel 2000, se non avesse vinto la Champions avrebbe disputato la Coppa Uefa), tanti allenatori cambiati (ben sette diversi in sei stagioni) e altrettanti trofei alzati al cielo. E il ragazzo di Buenos Aires, che si pensava potesse subire il passaggio dalla provinciale alla grande del campionato spagnolo, fu il fulcro ed il distributore di gioco.
Fabio Capello, tecnico merengue nella stagione 1996/1997 con cui vince il titolo, lo battezzò “il giocatore perfetto”: ottima visione di gioco, ottimo in fase di copertura, ottimo in fase di ripartenza dell’azione. E con quel piede che si pensava avesse il radar vista la precisione nei lanci.
Redondo era ancora maturato ed era pronto per il Mondiale francese del 1998. Ma in Francia l’asso del Real non ci andò. Non ci andò non per motivi tecnici o tattici (come si poteva non convocare un giocatore come lui?), ma per motivi disciplinari. A non convocarlo fu il nuovo CT Daniel Passarella in quanto Redondo si era rifiutato di tagliare i capelli, cosa che Passarella voleva e che altri suoi compagni fecero. Ma il meglio per Redondo doveva ancora arrivare.
Dopo il 2° posto nel campionato 1998/1999, la stagione successiva consacrò definitivamente il nome di Fernando Redondo tra i grandi del calcio. A fine torneo il club spagnolo si classificò al quinto posto, ma a Parigi proprio Redondo alzò al cielo da capitano l’ottava Champions League delle merengues dopo aver battuto 3 a 0 il Valencia. Finale raggiunta grazie alla giocate di una squadra molto forte guidata in mezzo al campo dall’eroe di Manchester. Redondo vinse, meritatamente, il premio di miglior giocatore della manifestazione.
Cosa poteva fare un giocatore che in sei anni aveva vinto tutto? Semplice, cambiare aria. E Redondo a fine stagione salutò il Real Madrid passando al Milan per circa 35 miliardi di lire. Nonostante si trovasse a proprio agio nella capitale spagnola, dove si era costruito una famiglia ed era venerato dai tifosi, decise di approdare in Serie A.
Redondo a 31 anni, nel pieno della condizione fisico-psichica di un calciatore, era pronto per la nuova avventura e firmò un sontuoso triennale con il club rossonero.
Uno dei più forti centrocampisti dell’epoca veniva a giocare in una Serie A ancora ai vertici del calcio europeo e mondiale e l’acquisto del ribelle Redondo fu il fiore all’occhiello della campagna estiva del Diavolo. Non un Milan stellare, ma una squadra concreta.
Ma la gioia della nuova esperienza si trasformò subito in un calvario: Redondo si fece male correndo sul tapis roulant di Milanello il 19 agosto 2000 poco dopo la sua ufficialità. La cosa fu subito grave: rottura del legamento crociato del ginocchio destro, intervento chirurgico e sei mesi di stop. In pratica sarebbe tornato in primavera per il rush finale di campionato. Redondo però debuttò poi in maglia rossonera addirittura nel dicembre 2002, ventotto mesi dopo l’infortunio.
Motivo? Il giocatore subì ben tre operazioni chirurgiche: ricostruzione del legamento crociato anteriore del ginocchio destro con asportazione di parte del tendine rotuleo; pulizia del tendine rotuleo; ricostruzione del tendine rotuleo affetto da tendosinovite cronica.
Redondo tornò a giocare solo il 4 dicembre 2002 in Coppa Italia contro l’Ancona e tre giorni dopo giocò la sua prima partita contro la Roma, entrando al posto di Shevchenko.
Redondo rimase al Milan fino al termine della stagione 2003/2004 e in quattro stagioni collezionò sedici partite, facendo incetta di titoli: uno scudetto, una Coppa Italia, una Champions League ed una Supercoppa europea. Peccato che in Europa con il Milan giocò sei partite in tutto. Con l’esperienza milanista la sua bacheca si riempì ulteriormente, ma il giocatore argentino fece una cosa che non tutti i calciatori hanno fatto in passato: il congelamento dello stipendio. In accordo con la società rossonera, il giocatore decise di non ricevere emolumenti per le stagioni 2000/2001 e 2001/2002, quelle dove non scese mai in campo. Un gesto simbolico nei confronti della sua squadra che lo aveva aspettato, ma anche verso se stesso perché non gli sarebbe piaciuto riceve in due stagioni 16 miliardi di lire di ingaggio senza aver mai giocato un solo minuto. Un gesto non da tutti, dimostrazione che i soldi non sono tutto nella vita paragonati con il riprendersi la propria carriera di giocatore. La sua ultima partita in rossonero fu il 16 maggio 2004 contro il Brescia: ironia della sorte, quella fu anche l’ultima partita di Roberto Baggio. Il 1° luglio 2004 decise di dire basta con il gioco del calcio all’età di 35 anni.
Il lato positivo di tutta questa vicenda? La scoperta di Andrea Pirlo regista: l’assenza prolungata di Redondo spinse Ancelotti a cambiare il modulo di gioco, spostando il centrocampista bresciano dal vertice alto al vertice basso del suo celebre “rombo”.
Dal luglio 2004 Redondo è un ex giocatore, è tornato nella natia argentina lontano dal calcio giocato, partecipa a partite di beneficenza o a tornei di vecchie glorie, il tutto in puro stile redondiano: in silenzio e con zero clamore. Nel frattempo, ha visto debuttare in Primera División suo figlio Fernando junior con la maglia del Club Atlético Tigre.
Parlare oggi di Redondo significa parlare di un giocatore che ha trasformato la regia in un qualcosa di superiore, un qualcosa dove contano di più il piede buono ed il talento piuttosto che la velocità. Ragazzo di poche parole, carismatico quanto serviva per aver una squadra ai suoi piedi nonostante non fosse un attaccante o uno con il fiuto del gol.
Hanno fatto grande Redondo la sua visione a 360° del campo, l’eleganza nei movimenti, i colpi di tacco e le finte, la sua astuzia e quel piede sinistro che lanciava la palla sul piede del primo compagno libero da marcature.
Questo è stato Fernando Carlos Redondo Neri, il ribelle che ha rifiutato la Nazionale per continuare a studiare e per la sua volontà di non tagliarsi i capelli.
L’unica sua pecca? La velocità. Redondo faceva tutto con calma: le azioni ripartivano da lui, con calma, la fronte non sudata, la maglia sempre intonsa. Eppure in campo era ovunque e strappava palloni in continuazione. Senza fatica perché sapeva già dove sarebbe andato l’avversario.
L’unica volta che ha corso veramente in campo, a perdifiato, risale alla notte di “Old Trafford”: corsa nel superare l’avversario, “taconazo”, corsa per recuperare la palla che stava uscendo, testa alta e palla in mezzo per Raul e gol dello 0-3.
Cosa aggiungere di più? Niente, quel colpo di tacco e la sua corsa sono ancora oggi, a distanza di diciassette anni, una delle più grandi giocate del calcio.