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Footbaal Legend, Thierry Henry

24 Jan 1999: Thierry Henry of Juventus in action during the Italian Serie A match against Perugia played in Turin, Italy. Juventus won the game 2-1. picture: Claudio Villa. Mandatory Credit: Allsport UK /Allsport

Footbaal Legend, Thierry Henry

Cosa distingue un attaccante rispetto ad un altro ruolo? Il semplice fatto che l’attaccante deve fare gol. E se un attaccante non fa gol, non fa il suo…lavoro.
La storia del calcio è piena di giocatori che nascono in un ruolo e “muoiono” in un altro. Uno di questi è stato, in maniera indiscutibile, Thierry Henry: nato come ala sinistra con poco fiuto del gol, a 22 anni si trasforma in attaccante letale e potentissimo tanto da diventare uno dei calciatori più forti della storia. Ma c’è un errore nella frase appena scritta: non si è trasformato da solo, ma lo ha trasformato un suo vecchio allenatore che in lui ha sempre creduto e che lo ha trasformato (giust’appunto) in un colosso del football. Quell’uomo si chiama Arsène Wenger che ha cambiato il destino di uno dei migliori talenti della storia del calcio francese, europeo e mondiale. Ma facciamo qualche passo indietro.
Thierry Henry, come tanti francesi, è figlio della colonizzazione: nato da padre guadalupense e madre della Martinica, cresce nella cittadina di Les Ulis in ristrettezze economiche. Si innamora sin da piccolo del gioco del calcio, militando in molte squadre del circondario parigino (U.S. Ulis, U.S. Palaiseau, E.S. Viry-Chatillon, I.N.F. Clairefontaine, R.C. Versailles). A differenza di tanti giovani esuberanti, non fa l’attaccante ma gioca in mezzo al campo, spostato a sinistra, facendo vedere cose non banali per un ragazzino. Ovviamente il suo nome iniziò a girare sui taccuini degli osservatori francesi.
A 17 anni Henry lasciò la piccola Les Ulis per arrivare a giocare in un club prestigioso di Francia, anche se non…francese: il Monaco, allenato allora Arsène Wenger. Il tecnico di Stasburgo vedendolo giocare capì che per lui era opportuno che giocasse più avanzato rispetto a dove aveva sempre giocato, vista la sua propensione palla al piede. Thierry Henry diventò quindi l’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto.
Le presenze iniziarono ad aumentare di stagione in stagione come il computo dei gol. Nel 1996 trascinò i “galletti” Under 18 a diventare campioni del Mondo di categoria e due anni dopo trascinò il miglior Monaco di sempre (di allora) prima alla semifinale di Coppa Uefa e poi quella di Champions League, venendo sconfitto dalle due finaliste perdenti (Inter e Juventus).
Henry diventa il giocatore Under 20 più forte di Francia, diventando con il compagno di squadra (e amico) David Trezeguet (oltre ai vari Anelka, Sagnol, Gallas e Silvestre) un oggetto di mercato.
Nel gennaio 1999 lasciò il Principato per sbarcare in Italia, vestendo i colori della Juventus. Ma è necessario un altro passo indietro, precisamente all’estate 1998.
Tra il 10 giugno ed il 12 luglio 1998, la Francia ospitò, a distanza di sessant’anni dalla precedente volta, i Mondiali di calcio. I Blues, allenati da Aimé Jacquet, erano una squadra molto forte, più completa di quella che vinse l’Europeo casalingo del 1984. Il Ct convocò quella che è stata chiamata la génération des phénomènes del calcio transalpino. E tra di loro chiamò anche il giovane ed inesperto (di Nazionale) Henry: fino all’inizio del Mondiale aveva giocato tre amichevoli. E proprio il giovane ed inesperto Thierry Henry segnò tre reti nelle prime due partite della fase a gironi dei francesi. E proprio il giovane ed inesperto Thierry Henry è stato uno dei protagonisti della cavalcata della Francia alla vittoria del suo primo titolo mondiale.
Luciano Moggi, uno che di calcio ne capiva, strappò a sorpresa Henry al Monaco per 22 miliardi: la nostra Serie A vedeva giocare nei suoi stadi uno dei giocatori Under 21 più forti del Mondo nonché il giocatore francese più pagato dalle nostre parti. Lasciò i biancorossi del Principato dopo quattro stagioni e mezzo, centoquarantuno presenze, ventotto reti, un titolo francese, una Supercoppa nazionale, il titolo di campione del Mondo. Il futuro era tutto dalla sua parte.
Ma il futuro non aveva fatto i conti con una delle più brutte stagioni della storia della Juventus, che dal novembre 1998 dovette salutare anticipatamente Alessandro del Piero per infortunio e dopo trent’anni un suo allenatore non terminò la stagione. Thierry Henry poté solo giocare in Coppa Italia e campionato, avendo giocato la prima parte di stagione nella coppa più importante con il Monaco.
I primi sei mesi del 1999 videro “Titì” giocare quattordici partite segnando tre gol, di cui due nello scontro contro la Lazio che perse, praticamente, il titolo. La terza rete la segnò al Venezia.
Il giovane Thierry, numero 6 sulle spalle, cambiò ruolo passando “esterno sinistro di centrocampo a cinque”. Un ruolo che non gli si addiceva per nulla: troppo lontano dalla porta, troppo sacrificato, troppo spaesato. Thierry Henry era diventato l’uomo giusto, al posto sbagliato, al momento sbagliato. I bianconeri si classificarono settimi e si qualificarono alla Coppa Intertoto dopo aver perso lo spareggio Uefa con l’Udinese. Henry rimase bianconero, ma qualcosa non andava, psicologicamente, tatticamente e tecnicamente, ed il 3 agosto 1999, con un altro blitz, Thierry Henry salutò Torino e l’Italia: non voleva essere una contropartita tecnica nell’Udinese che avrebbe dato Marcio Amoroso alla Juventus. 10 milioni di sterline e addio Serie A.
Sbarcò in Premier League ed approdò nell’Arsenal di Londra. A volerlo fu il tecnico che lo fece debuttare nel professionismo, Arsène Wenger. I Gunners scucirono 10 milioni di sterline per portare a casa il talento di Les Ulines, insieme a Davor Suker dal Real Madrid. Ad Highbury, Henry trovò i connazionali Petit, Vieira e Grimandi. La rosa dei Gunners era molto forte (da Keown ad Adams, da Overmans a Ljungberg, da Parlour a Kanu a Bergkamp) e i londinesi sperarono che potesse dare il quid necessario per vincere in patria ed in Europa.
Le prime otto partite furono negative per Thierry Henry: zero reti e poca roba in campo. Si pensò che il talento francese si fosse smarrito e che Wenger avesse preso un abbaglio dandogli fiducia. Ma il tecnico alsaziano, che come Moggi capisce di calcio, ebbe un’intuizione: Henry prima punta nel 4-5-1. La prima rete arrivò contro il Southampton il 18 settembre 1999: gol che valse i tre punti contro i Saints. Wenger non fece una mossa azzeccata, ma di più: Thierry Henry in otto stagioni segnò la bellezza di 228 reti ed il club vinse due Premier League, tre Coppe d’Inghilterra e due Community Shield. Ma è a titolo personale che Henry diventò uno dei più grandi: cinque volte eletto miglior giocatore di Francia, quattro titoli marcatori di Premier, due Scarpe d’oro consecutive, due Onze d’or, secondo e terzo nella classifica del Pallone d’oro nel 2003 e nel 2006 e l’ingresso nel club dei FIFA 100. Peccato per le due finali europee perse contro Galatasaray (Coppa Uefa 1999/2000) e Barcellona (Champion League 2005/2006).
Se alla Juventus Thierry Henry era stato un errore tattico, all’Arsenal divenne il giocatore più forte ad aver mai indossato la maglia rossa con le maniche bianche. Giocatore tecnico e veloce, Henry con i gunners si dimostrò non solo un ottimo uomo gol, ma anche un pregevole assist man, tanto da averne “serviti” complessivamente centotrentasei.
Sin da subito Thierry Henry entrò nel cuore dei tifosi per grinta, tecnica e passione, parlando anche molto bene l’idioma anglosassone. E poi ci furono i gol: nelle otto stagioni all’Arsenal, Henry andò sempre in doppia cifra in campionato, con il top nella stagione 2003/2004 dove segnò addirittura 30 reti e per cinque stagioni consecutive (2001-2006) non andò mai sotto le venti reti. Nello stesso periodo segnò altre 30 reti in stagione tra Premier e coppe varie. Nel 2005 diventò capitano e superò Ian Wright nella classifica dei migliori marcatori dei Gunners: l’attaccante inglese impiegò sette stagioni a segnare 185 reti, il francese ne impiegò sei e le prime undici partite della stagione successiva.
Fra le “cause” che spinsero Thierry Henry a diventare il più forte calciatore dell’ultra centenaria storia dell’Arsenal si possono contare l’input del pubblico (sempre pronto ad incitare ed applaudire anche nelle partite dove era sotto tono), ed il fatto di aver giocato con diciassette connazionali in squadra, di cui due leader (Patrick Vieira e Robert Pirès): va bene parlare inglese, ma in francese è meglio.
Henry divenne il beniamino di un’intera tifoseria anche se il suo anno nero fu il 2006: l’Arsenal perse la sua prima (e finora unica) finale di Champions League e la Francia perse ai rigori la finale del Mondiale tedesco contro l’Italia. Mondiale che vide steccare il numero 14 francese in finale, ma che fece un torneo apprezzabile con tre reti in sette partite. Nel periodo londinese, Henry vinse con la sua Nazionale l’Europeo belga-olandese del 2000 e la Confederations Cup del 2003, prendendo parte al pessimo Mondiale del 2002 e ai brutti Europei del 2004 e del 2008, con il solo Thierry Henry in gol in tre partite.
In Nazionale si rese protagonista di un gesto poco sportivo nei confronti dell’Eire, con quel gesto di mano netto (e non confessato) che nei play off di qualificazione a Sudafrica 2010 vide qualificati i transalpini a scapito degli irlandesi allora allenati da Trapattoni: Henry toccò per ben due volte in pochi secondi la palla in area con la mano sinistra per poi passarla a Gallas che segnò il gol qualificazione. E la cosa che fece più arrabbiare è che il giocatore era conscio di aver commesso una cosa brutta ma lui, “alla Maradona”, festeggiò come nulla fosse.
Se con la Nazionale francese furono più spine che rose, con l’Arsenal il matrimonio andava a gonfie vele tanto che i tifosi gli costruirono una statua in bronzo all’ingresso dell’Emirates Stadium inaugurata nel dicembre 2011.
Ma Thierry Henry nel giugno 2007 lasciò l’Inghilterra per approdare in Spagna e vestire i colori del Barcellona, per una cifra intorno ai 24 milioni con un ingaggio da sette milioni a stagione per quattro stagioni. Titolare con Frank Rijkaard durante la prima stagione, dalla successiva non partì con i galloni di titolare, ma il francese, grazie alla caparbietà e al lavorare sodo in allenamento, divenne insostituibile. E, con la promozione di Messi a titolare, lui, l’argentino ed Eto’o segnarono la bellezza di settantadue reti in campionato.
Con i catalani Henry divenne ancora più decisivo: in tre stagioni giocò 121 partite segnando quarantanove reti, con la vittoria del titolo di campione d’Europa e del Mondo nel fantastico 2009 con la prima stagione da entrenador di Josep Guardiola. Quell’anno solare il Barça vinse titolo nazionale, Coppa di Spagna, Supercoppa nazionale, Champions League, Supercoppa europea e Mondiale per club. Ed in tutte le vittorie, l’apporto del numero 14 francese fu determinante.
Ma i calciatori, si sa, hanno sempre bisogno di nuovi stimoli e quale può essere lo stimolo necessario per uno che fino a quel momento, tra club e Nazionale, aveva segnato 350 reti? Semplice, fare i bagagli e andare a giocare nella Major League Soccer con i New York Bulls.
Con la squadra sponsorizzata dalla nota marca di bibite energetiche, Thierry Henry giocò cinque stagioni, segnando con regolarità (52 reti in centotrentacinque partite), ma vincendo un Supporters’ Shield, il campionato vinto dalla squadra che totalizzava più punti al termine della stagione regolare.
La MLS non è un torneo competitivo e il bomber francese ci andò in parte per giocare strappando l’ultimo contratto miliardario della carriera e perché non aveva più il “passo” per giocare in Europa. Il campionato americano non si gioca dieci mesi l’anno come in Europa, ma ha tante pause e nei “tempi morti” i giocatori, per non perdere la forma, possono passare in prestito ad altre squadre. Anche Henry decise di tornare a giocare in Europa e in quale squadra poté andare a giocare? Nella squadra che lo aveva visto essere l’uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto: l’Arsenal.
Thierry Henry tornò in campo contro il Leeds il 9 gennaio in FA Cup ed entrò sullo 0-0. Partita difficile con i gunners che non riuscivano a segnare e Arsène Wenger disse al suo attaccante, al 68′, di entrare in campo. Ed Henry cosa fece dieci minuti dopo? La cosa più facile che fece 227 volte nelle precedenti trecentosettanta partite giocate con quella squadra: fare gol. Rimase a Londra fino a fine febbraio, giocando complessivamente quattro partite di campionato (nessuna da titolare), una di Champions League e due di FA Cup con tre reti totali, che lo spinsero a duecentoventotto totali.
Finita la breve esperienza londinese, Henry tornò a New York dove ri-vestì i panni di giocatore più forte di una squadra mediocre. Lasciò il sodalizio biancorosso il 1° dicembre 2014.
Per lui nessuna panchina, ma una brillante carriera di opinionista calcistico salvo poi accettare l’offerta di Roberto Martinez di accompagnarlo come secondo assistente nella Nazionale belga dallo scorso anno.
A distanza di tre anni dal suo ritiro, cosa ci rimane di TH? Il primo pensiero va alla Juventus: l’attaccante francese rimarrà negli annali della storia del club di corso Galileo come una grande meteora ed il grande rimpianto di una squadra (e di un allenatore) che non lo capirono e che lo impiegarono in un ruolo non suo. Va bene che giocò solo sei mesi, ma visto cosa fece prima e dopo la sua esperienza torinese, si può dire che Thierry Henry è stato un grandissimo abbaglio di Ancelotti: non si segnano per caso 228 reti in una della squadre più famose del Mondo e se ti costruiscono una statua di bronzo fuori dallo stadio, significa che non si è un errore tattico ma un Campione con la C maiuscola.
Henry è stato un concentrato di tecnica, fiuto del gol e rapidità che lo hanno reso uno degli attaccanti più forti della storia del calcio. Un giocatore che è maturato anno dopo anno e che ha fatto dell’impegno e del lavoro per sudarsi la fama .
E’ stato il giocatore giusto (prima punta vera), al posto giusto (l’Arsenal) al momento giusto (una squadra che non vinceva da tempo ma che con lui divenne una squadra tosta e vincente), ma non alla Juventus.
Se chiudiamo gli occhi e pensiamo ad Henry avremo due momenti: lui che ride e lui che corre palla al piede verso la porta avversario scartando lo scartabile, oppure servendo una palla d’oro al compagno smarcato.
Ma Thierry Henry è anche stato, ed è, altro. Durante la sua carriera l’asso francese si è fatto conoscere per la sua attività nel sociale, diventando un testimonial della lotta al razzismo con la campagna “Stand up, Speak up” con i celebri braccialetti intrecciati di gomma bianchi e neri. Proprio Henry è stato vittima un brutto fatto di razzismo in un campo di calcio.
Il calcio non ha mai trovato un calciatore erede di Thierry Henry, anche perché è difficile trovare giocatori che giocano per il puro divertimento e che mischiano potenza, dribbling e forza fisica come ha fatto lui.
La storia del calcio francese pone Thierry Henry suo top scorer, anzi le plus grand buteur della storia della Nazionale transalpina, avendo segnato 51 reti, dieci in più di un certo Platini (che però ha giocato cinquantuno partite in meno).
Questo è stato Henry: corsa, dribbling, eleganza, precisione, inserimenti, assist e gol. Tanti gol e una bacheca piena di titoli personali e di club. anche se non c’è il Pallone d’oro, premio che gli avrebbero dovuto consegnare senza se e senza ma.
Lavoro e Talento, due parole con le lettere maiuscole nel vocabolario “Calcio-Henry”. “TH” ha avuto la fortuna di nascere con le stimmate del predestinato ed è riuscito a confermarsi. Con buona pace dei tifosi juventini che dopo di lui hanno avuto dei grandissimi bomber, ma non hanno mai potuto godere appieno di un Talento come Thierry Henry. E meno male che dopo la fallimentare esperienza italiana non si è lasciato prendere dalla rabbia, non si è perso come invece è capitato a tanti giocatori che si pensa fossero talentuosi, ma che invece erano fuochi di paglia.

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