Edita ha gli occhi scuri, e laggiù in fondo sembra di vederci sempre qualcosa di diverso. Il sorriso grande, per tutti, nonostante la sensazione sia che non voglia disturbare. La Pucinskaite, così sento chiamarla da persone che al tavolo vicino al mio ne parlano. Perchè non se ne può non parlare. In quel corpo sottile e ben definito, e dietro a tutta quella dolcezza, c’è l’unica donna al mondo capace di vincere il Giro d’Italia, il Tour de France e il Campionato del Mondo su strada. Una forza della natura.
L’ho vista scendere dalla macchina e precedermi nel vialetto. Sapevo che stavamo andando nello stesso posto ma ho preferito seguirla senza presentarmi o importunarla. Perchè è cosi che noi timidi ragioniamo, e lo siamo entrambi, io ed Edita.
Quando mi hanno chiamato sul palco ho fatto quello per cui ero stato invitato, parlare di Marco Pantani e leggere la poesia che già avevo letto davanti a mamma Tonina su a Montecampione. Ho visto tanti visi attenti perdersi un po’ in quelle parole, perchè quelli della nostra generazione sono per forza quelli che “Marco Pantani scattava in salita”. Ho visto tanti sguardi e tra i tanti il suo. Era proprio lei, Edita Pucinskaite, che seguiva le mie parole e ondeggiava con piccoli cenni del capo. Ci siamo guardati. Giuro che mi ha sorriso. Lo ha fatto più volte. E alla fine quando tutti insieme ci siamo ritrovati su quel palco, mi sono sentito sfiorare, con quella dolcezza che emerge dai suoi occhi scuri. E lei che ha vinto tutto quello che un ciclista professionista sogna di vincere, si è avvicinata ad un onesto scribacchino di provincia per congratularsi.
Per farmi sentire che aveva apprezzato, che si era emozionata.
L’umanità, l’umiltà e la capacità di gesti spontanei sono le caratteristiche che rendono Edita Pucinskaite “una campionessa normale”, che però ha vinto il Giro, il Tour ed il Campionato del Mondo.
Ecco perchè quando ci siamo incontrati non ha esitato un attimo a rendersi disponibile.
Ed io mi sono sentito suo amico fin da subito.
Edita Pucinskaite: “Alfredo Martini e Franco Ballerini i miei punti di riferimento”
Edita quanto è importante per te il contatto con la gente? Con i tuoi tifosi ma anche con le persone normali?
Parto dalla fine, io mi sono sempre sentita “normale” in mezzo alla gente “normale” e già questa potrebbe essere la risposta. Ho sempre preferito correre e vivere ogni successo come se stessi facendo un bel sogno dal quale comunque ogni mattina ti risvegli, questo anche quando dopo il successo iridato fui travolta, soprattutto in Lituania, da un’ondata di popolarità. Nessuno mi ha consigliato di adottare questo atteggiamento, ma sentivo che questo stato mentale mi avrebbe permesso di restare con i piedi ben saldi in terra e non perdere quell’umiltà necessaria per continuare a “massacrarsi” durante gli allenamenti e le gare. Ricordo anche i primi anni duemila quando d’inverno, partecipando ad una serie di feste e premiazioni ciclistiche in Toscana, mi innamorai della grandezza, della semplicità, della disponibilità e umanità di due grandissimi personaggi del Ciclismo: Alfredo Martini e Franco Ballerini che sono subito diventati e rimasti i miei punti di riferimento per quanto riguarda il rapporto con la gente. Che rapporto ho con la gente che pedala? Rapporto sereno, oggi pedalo, rido, scherzo e mi diverto sia con i miei tifosi che con quelli che tifavano contro, ma anche con chi non segue nemmeno il ciclismo professionistico o non sa nemmeno che esiste il ciclismo femminile (e ci sono anche quelli).
Quello che colpisce nel vederti in mezzo alla gente è il modo che hai di rapportarti a loro. A differenza di molti altri sportivi, i tuoi successi non ti hanno cambiata. Quanto hanno influito le tue origini?
Pensa che mi sento addirittura in difficoltà se qualcuno si rivolge a me con troppa ammirazione per i successi raggiunti, perché viene a mancare la spontaneità della chiacchierata e ci vuole del tempo per sciogliere quei imbarazzi reciproci.
In passato, quando gareggiavo, sono stata anche criticata per il mio non saper “fare il personaggio” ed essere fin troppo semplice sia con le compagne del team che con i tifosi. Considera anche che i social, mezzo con il quale gli sportivi oggi comunicano maggiormente con i propri followers, sono nati negli ultimi anni della mia carriera e esplosi quando ho smesso, peccato perché da professionista, attraverso i social, avrei potuto fare di più per la promozione del ciclismo femminile. Non ho mai avuto una grande considerazione per la gente di successo, che cambia atteggiamento. Ma poi altro che montarsi la testa: chiudendo la carriera ero assolutamente sicura di non essere più ricordata da nessuno, sono una realista e vi posso assicurare che forse un appassionato su mille potrebbe avere la stessa ammirazione per un campione del mondo uomo e donna, per quanto sbagliato questo sia. Invece la stima della gente è rimasta, l’avverto molto spesso. Inutile nascondere che questo mi lascia una sensazione forte, ognuno di noi si nutre dalla stima che gli altri ci trasmettono.
Le origini? l’educazione? È alla base di tutto, inevitabilmente.
Che ricordi hai della giovane Edita che inizia a fare sport? E’ stato semplice riuscire ad emergere oppure no?
Mi ricordo determinata. A nove anni correvo a piedi, partecipavo alle gare e volevo vincere. Poi tornavo, prendevo il mio diario e raccontavo ogni dettaglio: l’atmosfera della gara, paure, sensazioni, liberazione dopo il traguardo, con tanto di autocritica per vari errori commessi. Mi ricordo che chiesi al mio allenatore di allenarmi più seriamente perché divertirsi mi diverto anche giocando con le mie sorelle, ma durante gli allenamenti voglio fare atleta. Iniziai a vincere abbastanza presto e a sognare, fantasticare. Il mio sogno preferito e segreto era quello di vedermi alla partenza della maratona ai Giochi Olimpici. Chiudevo gli occhi e mi vedevo li, forte e sicura di me. Poi la vita ha rimescolato tutto.
Hai detto che la tua timidezza ha rischiato di compromettere la tua carriera quando cercavi di entrare nella selezione della Lituania. Poi cosa è successo? Esiste un momento chiave in cui è scattata una molla?
Posso dire di aver subito parecchie ingiustizie e clamorose mancate convocazioni da parte della mia nazionale. Tutto questo nella prima parte della carriera poi sono cambiata sia io che le circostanze e ho potuto concentrarmi sul proseguo della carriera senza temere fregature dell’ultimo momento. In generale ho pagato un caro prezzo per la mia timidezza con la quale ho avuto un rapporto conflittuale. La mia parte “io valgo” restava schiacciata da quella “non sono all’altezza” e ho messo tanti anni per imparare a reggere lo sguardo senza abbassare gli occhi, per trovare il coraggio di esprimere la mia opinione e farmi valere. Purtroppo la timidezza solo in teoria non è un difetto, nella vita invece, un adolescente timido rischia di essere respinto, pochi o nessuno cercano di capire chi è veramente un ragazzo o ragazza che parla poco. Odiavo fortemente la mia timidezza, volevo diventare un’atleta da grande e gli atleti non chiedetemi perché, ma me li immaginavo estroversi. A 12 anni entrai nel ciclismo dell’istituto dello sport (una polisportiva per i più promettenti giovani atleti del paese) e questo significava studiare, allenarsi e vivere a 160 km dal mio paese natale dove rientravo in pulman solo per il fine settimana. Non fu una passeggiata, per ambientarmi ci ho messo parecchio. La molla è scattata quando firmai il mio primo contratto da professionista con la veneta Michela Fanini Top Girls. Avevo 20 anni e dopo il bronzo mondiale a Duitama 1995 arrivò la proposta di trasferirsi in Italia, dove stare e gareggiare con questo neonato team professionistico femminile. Cambiare l’aria e ambiente mi ha fatto subito un effetto positivo.
Hai sempre voluto essere un’atleta, eppure spesso hai pensato “non sono all’altezza”. In che modo si riesce poi a dirsi “io valgo”?
In realtà il mio “io valgo” è sempre vissuto dentro di me, motivo per cui non ho mai smesso di sognare nonostante il mio “profilo” non corrispondesse esattamente ai modelli classici di atleta tipo, presenti in quell’epoca e spesso anche oggi.
Credevo che un campione vero innanzitutto non dovesse avere nessuna fragilità e assomigliare ad un supereroi invincibile e mentalmente freddo solo perché me l’hanno fatto credere. Da piccola amavo la poesia e i libri, cercavo amicizie vere e legavo con gli amici meno esuberanti. Per questi motivi mi dicevano, “hai un carattere po troppo debole, non proprio quello che serve nello sport ad alti livelli”. Tutto questo mi infastidiva non poco e, inconsapevolmente, alimentava la mia autostima più dei risultati podistici e delle aspettative che i grandi (eccezion fatta per i genitori, ma loro, sapevo bene, erano di parte) avevano su di me. Altro che incoraggiamento…
A 12 anni, quando iniziai a praticare il ciclismo, le cose peggiorarono ulteriormente. Se da piccola podista mi ritagliavo le soddisfazioni, da ciclista mi ritrovai ad affrontare le gare pianeggianti, vento, cadute e conclusioni in volata dove non riuscivo ad esprimermi. Tutto questo lontana da casa e dagli affetti più importanti. I primi due anni strinsi i denti, poi qualche dubbio iniziai ad averlo. Mi domandavo non soltanto se ero all’altezza ma se in generale quella fosse la mia strada.
Ricorderò per sempre le parole di una nota allenatrice di atletica leggera dell’istituto, che un giorno si avvicinò a me dicendo “stai praticando uno sport sbagliato, non emergerai mai in uno sport aggressivo e di squadra come il ciclismo. Nel ciclismo servono le unghie, i denti, la cattiveria, questo mondo ti mangerà”.
Di fronte a questi o altri giudizi, crudeli a dir poco, il mio ego si scatenava dentro ogni volta, gridando vendetta. Non replicavo mai, ma faceva male. Il mental coach, che oggi sta diventando una realtà sempre più presente nel mondo dello sport, ai tempi della mia adolescenza sportiva non esisteva, mi sarebbe servito tanto. Ma non c’era e mi sono arrangiata a modo mio. Più mi mettevano in dubbio e più forza e determinazione si scatenavano in me. Contemporaneamente, nel tempo, mi sono accettata così come sono e concentrandomi su ciò che faccio e su dove voglio arrivare. Capendo soprattutto che le fragilità fanno parte del cammino di ogni persona e i supereroi esistono soltanto nei cartoni animati.
Il ciclismo indubbiamente è uno sport molto duro e serve una grande motivazione per riuscire. Quanto il ciclismo ha aiutato Edita a diventare la donna che è oggi?
Io credo che la motivazione è alla base di tutto ovunque. Le strade, tutte, sono tortuose e più in grande si sogna, più la strada si impenna. A 22 anni avevo già vinto il Tour de France e da li, altro che passeggiata, ho sempre dovuto convivere con delle responsabilità e pressioni, aspettative, dure critiche ad ogni fallimento e con la consapevolezza che ogni stagione c’era da dimostrare nuovamente tutto. La motivazione però mi ha sempre accompagnato, non mi domandavo mai “chi me lo fa fare” nemmeno quando d’inverno prendevo la bici e uscivo per svolgere il mio allenamento anche sotto il diluvio. Il ciclismo mi ha formato, mi ha fatto capire alcuni concetti fondamentali, che senza quel mondo non so se li avrei scoperti.
Molte bambine oggi si affacciano al ciclismo. E’ cambiato molto rispetto a quando hai iniziato te? Cosa consiglieresti ad una bambina che ha appena iniziato?
Si, è cambiato. Le bambine di oggi pedalano con meno pregiudizi addosso, dico meno, perché i preconcetti sono sempre presenti. In generale il ciclismo di oggi è molto più tecnologico rispetto a quello della mia generazione, così come tutta la vita che viviamo. Un consiglio ad una bambina ciclista? Gioca e divertiti ma se ti accorgi che ciò che fai ti appassiona, ti entra dentro, non aver paura di sognare. Insegui sempre i tuoi sogni, non quelli di tuoi genitori. Non ti arrendere alle prime difficoltà alle prime sconfitte, perché sono quelle che ti tempreranno mentalmente. La cosa più bella sarebbe quella di poter dare un consiglio personale a ogni bambina e bambino dopo averli conosciti uno a uno.
Immaginiamo di scendere per una attimo dalla bicicletta. Com’è Edita tra le mura di casa?
Sono una persona come tutti, a volte allegra e costruttiva, altre volte stanca, giù e priva di idee, ho la mia famiglia: marito, due bambini che si affacciano alla vita e crescono a vista d’occhio. Mi rendo conto quanto sia importante questa fase della loro vita per ciò che diventeranno in futuro e cerco, cerchiamo, come tutti i genitori, di non commettere troppi errori e indirizzarli sulla strada della conoscenza e del rispetto verso il prossimo. Lasciandoli sempre liberi di esprimersi e di scegliere. Ma anche qui, come nel ciclismo, non troveranno un autostrada, anzi…
E immaginiamo che neppure tu, nei tuoi trionfi, abbia trovato un autostrada. Qual’è stata l’avversaria più forte e arcigna con cui ti sei battuta? E quale invece quella ricordi più volentieri?
Faccio fatica a citare una sola diretta avversaria, la mia generazione ha visto una serie di fortissime scalatrici e passiste scalatrici, categorie che nel ciclismo femminile odierno, tutto forza e esplosività, hanno molto meno spazio per emergere. Tra tutte Fabiana Luperini, per diversi anni padrona unica e assoluta nei grandi Giri a tappe. Duellare con lei al Tour ‘98 era già una vittoria, batterla poi… vi lascio immaginare. Poi Joane Somarriba, avversaria ma anche compagna del Team Alfa Lum per un paio di anni: conservo i ricordi legati alla sua immensa classe in salita, era forte, costante, mai scomposta, un puro talento. Con Nicole Brandli condividiamo due emozioni contrastanti e quasi surreali: uno schiaffo e un trionfo reciproco all’ultimo tuffo. Lei mi strappò, per pochi secondi, la maglia rosa, che avevo difeso per quasi tutto il Giro d’Italia e lo fece all’ultima cronometro di Venezia nel 2003. Io feci lo stesso nel 2006, attaccandola quando aveva la maglia da leader sulla salita conclusiva del Giro, il Ghisallo. Credo che siamo l’unico caso nella storia del ciclismo con lo stesso epilogo in un grande Giro, ma a destini inversi.
Ricordo con grande piacere altre grandissime, tra quali Imelda Chiappa, Roberta Bonanomi, Alessandra e Valeria Cappellotto, Greta Zocca, Gabriella Pregnolato, Michela Fanini, Katia Longhin, Judith Arndt, Susanne Ljungskog, Mirjam Melchers, Anna Wilsson, Diana Ziliute, Catherine Marshal, Mari Holden, Kristin Armstrong, Barbara Heb, Linda Jeakson, Zinaida Stahurskaya, Valentina Polkanova, Monica Valvik, Alessandra Koliasseva, Zoulfia Zabirova, Ina Yoko Teutenberg, Amber Neben, Vera Hohlfeld, Regina Schleicher, Hanka Kupfelnager, e potrei andare avanti a lungo, a ognuna di loro sono legati i ricordi, gli aneddoti, le sfide, le litigate, le risate…tutto, come se fosse ieri.
Alcune di loro purtroppo non ci sono più.
Hai vinto Giro, Tour e Campionato del Mondo. Riesci a scegliere la vittoria più bella? Perchè?
Non riesco a scegliere, farlo sarebbe come tradire le altre. Il Tour ‘98, vinto dalla prima all’ultima tappa in realtà fu una tortura fisica e mentale che durò due settimane, le più lunghe della mia vita: essere leader alla gara a tappe più importante al mondo a 22 anni (almeno per me) mi pesava tantissimo. Andai in crisi sia sul Valberg che sul Mont Ventoux, riuscendo comunque a limitare i danni. Gli ultimi tre giorni smisi di dormire la notte, ero esausta. “Puoi e devi farcela”, mi ripetevo come una preghiera. Quando tutto è finito, mi sembrava di essere arrivata in paradiso dopo aver attraversato l’inferno.
Il Campionato del Mondo a Verona nel 1999 fu un esplosione di emozioni. Vincere tagliando il traguardo in solitudine permette di gustarsi quel momento sempre sognato: gli ultimi 500 metri, quando ho capito di avere in pugno il Mondo, ho ripercorso tutta la mia vita. Ero incredula. Pazza di gioia. Volevo fermare l’attimo per rendermi veramente conto di quello che stava accadendo.
Il Giro mi era sempre sfuggito. Nel ‘97 salìi sul terzo gradino e da lì iniziò il lungo calvario. Terzi e quarti posti in classifica generale ne ho collezionati parecchi con il drammatico secondo raccontato sopra. Poi, proprio nel momento in cui iniziavo ad avvertire un po’ di scetticismo nei miei confronti, la Rosa arrivò. Era il 2006. “Ora posso anche smettere”, dissi subito dopo essere scesa dal podio. Finalmente mi sentivo libera. Completa.
Parlare di emozioni è bello, provarle nella loro massima intensità fa percepire che esse in fondo, sono una delle poche cose vere che contano nella breve vita di un essere umano. Il bello dello sport che le emozioni si regalano e si trasmettono. Dopo le mie vittorie c’era chi piangeva di gioia. E noi adulti di felicità piangiamo raramente…
Voglio precisare una cosa però. Molta gente spesso mi dice: “hai vinto tutto, Mondiali, Giro, Tour, eri un fenomeno”. Posso assicurare che non è proprio così. Ho fallito tantissimi obiettivi, ho vinto tanto ma avrei potuto vincere molto di più se non avessi sbagliato l’interpretazione, se avessi fatto parte di una formazione più forte ecc. E soprattutto non ero un fenomeno, le ciambelle non mi venivano subito col buco. Ho vinto 2 Giri d’Italia su sedici disputati, e 1 Mondiale su diciotto corsi, ma sono fiera anche dei podi conquistati, perché sono quelli che testimoniano la credibilità delle vittorie più grandi!
Ho conosciuto tantissime ragazze forti che hanno smesso senza aver centrato un grande obiettivo, così come succede anche nel professionismo maschile, sappiamo bene che il ciclismo è uno sport individuale/di squadra complesso, incerto, il più affascinante che esiste. Lo amiamo per questo. Ma lo odiamo pure: un percorso che non ti si addice, le cadute, le forature che rovinano i piani, una tattica di gara che si rivela fallimentare, la gamba che non risponde a dovere, compagne che non ci sono quando ce ne sarebbe bisogno e giovani promettenti che provano a pestarti i piedi. Sapevo dentro di me quello che valevo, ma le vittorie me le sono sudate con una tenacia fuori dal comune, la mia, mi rendo conto adesso, era una fame vera. Ricordo solo un paio di occasioni in cui, non in ottima condizione e su un percorso dove non avevo grandi chance, di essere riuscita ugualmente a vincere, avvantaggiandomi grazie, come direbbe Riccardo Magrini, ad un solo scatto da fagiano. Tutto il resto è stato un inseguire, tra sconfitte (tante) e sorrisi (anche questi tanti, sono stata sicuramente molto fortunata).
Un campione o una campionessa lo restano per sempre. Ma quanto è stata dura smettere di “fare quelle che si ama” e iniziare una nuova vita “normale”? Quanto è stata importante la famiglia?
Nel ciclismo professionistico ero sempre in corsia di sorpasso, ho corso tanto, ho girato il mondo in lungo e in largo, trascorrevo con la valigia in mano 300 giorni all’anno, e se guardiamo da questo lato, sto vivendo adesso una vita completamente diversa. Correre a tutta però può avere anche i suoi lati positivi, ma di sicuro ne ha parecchi contrari. Consapevole che il professionismo non può durare all’infinito, ho compreso che era arrivato il momento di rallentare e di godersi la normalità che la vita offre, lontana dalle pressioni e dallo stress che inevitabilmente accompagna un ciclista che si pone degli obiettivi massimi. Mi ricordo che è stato come uscire da una centrifuga, guardarsi intorno e dire “wow…e ora?” E ora nulla. Il cielo era azzurro prima e lo è anche adesso, la natura ha lo stesso colore e odore ed il sole continua a splendere. Ho sentito molti che mi dicevano “vedrai sarà dura, vedrai ingrasserai tantissimo, vedrai andrai in depressione”. La verità è che ognuno reagisce a modo suo.
Personalmente non ho avvertito nessun trauma dal cambiamento, credo per due motivi: ho chiuso la mia carriera veramente con tanta soddisfazione e gratitudine verso la vita, dalla quale ho ricevuto tanto. Realizzarsi nella vita è qualcosa di magico che auguro a tutti, perché porta quella serenità necessaria per affrontare con leggerezza d’animo ogni svolta futura. Se la vita la prendi come una metafora del ciclismo, adattarsi diventa una passeggiata; avevo dentro un crescente desiderio di vivere l’esperienza della maternità, immaginavo quanto questo percorso sarebbe stato speciale e magico per me e per mio marito che ha sacrificato non poche ambizioni lavorative per seguirmi e sostenermi nell’arco di tutta la carriera e così infatti è stato.
Con la bici oggi ho un feeling diverso: cicloturistico e poetico. Subito dopo l’agonismo ho scoperto una nuova realtà amatoriale, l’Avis Bike Pistoia, che pedala, organizza e dona. Sono entrata in questo mondo di bella gente capendo fin da subito che lo sport può e deve fare di più per promuovere la solidarietà. Ora questo è anche il mio mondo, nel quale mi trovo benissimo. Mi diverto in bici, mi tengo in forma e mi ripulisco la mente, mi godo i paesaggi e tutte le soste caffè con gli amici. Con l’Avis Bike organizziamo la granfondo incentrata sulla promozione del territorio e sul fare beneficenza.
La vita “normale” è bella. La vita è bella sempre quando il bicchiere è mezzo pieno e la salute è con te.
Edita Pucinskaite, una campionessa normale in mezzo alla gente
Ringrazio Edita Pucinskaite, per aver con minuzia scelto piccoli pezzi della sua vita, e con la gentilezza che l’ha resa grande, per averli donati a tutti noi. Una piccola catena di eventi, sorrisi, fotografie e schegge di cuore che sarà bello custodire con cura.
Edita Pucinskaite non scende di sella. E’ sempre li, con le sue tante maglie conquistate in carriera, a pedalare nelle corse di paese o nelle Granfondo più importanti. Sempre con quel sorriso che rapisce e quello sguardo furbo che ti entra dentro anche dopo averlo incrociato per un piccolo istante. E’ li con la sua bicicletta, come quando era bambina o come quando, braccia al cielo, è diventata campionessa.
Una campionessa “normale”, della gente e per la gente.
Edita Pucinskaite parla e potresti ascoltarla ancora per ore. Non avrebbe comunque bisogno del suo palmares, perchè i campioni veri sono quelli che ogni giorno sanno regalare se stessi come fossero gregari di vita.