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Dieci anni senza George Best

Best

Dieci anni fa moriva, in un anonimo letto di una clinica londinese, lacerato da un’infezione al fegato, George Best. Aveva 59 anni.

Dieci fa fa moriva uno dei giocatori più talentuosi e forti del calcio mondiale del XX secolo. Un’ala destra con il vizio del gol, un ragazzo che ha fatto sognare una generazione intera di tifosi che con i suoi dribbling, il suo stile e la sua visione di gioco, la sua velocità ed la sua tecnica sopraffina, lo hanno reso un’icona con gli scarpini neri ai piedi nei mitici anni Sessanta.

Nato a Belfast il 22 maggio 1946, George Best legò la sua (breve ma intensa) carriera di calciatore alla maglia del Manchester United. Arrivato nei Red devils a quindici anni, scappò poco dopo a casa, a Cregagh, impaurito dalla metropoli, salvo poi tornare poco tempo dopo, andandosene da “Old Trafford” a ventotto anni da star globale.

Il biennio 1966-1968 è stato il periodo d’oro di George Best, quando la squadra allora allenata da Matt Busby giunse prima in semifinale di Coppa dei Campioni e poi alzandola al cielo di Wembley due anni dopo, facendo diventare il Manchester United la prima squadra inglese a vincere la coppa europea più prestigiosa. Una vittoria che arrivava dieci anni dopo il disastro aereo di Monaco di Baviera del 6 febbraio 1958, nel quale persero la vita 23 giocatori dello United. A cadere sotto i colpi di quella epica squadra fu, il 29 maggio 1968, il Benfica di Eusebio, la perla nera portoghese, che già due anni prima (il 10 marzo 1966) dovette arrendersi ad un’inarrestabile Best che batté (quasi da solo) nei quarti di finale la squadra lusitana, vincitrice ai quei tempi di due Coppe Campioni e che per tre volte era arrivata in finale. Quella sera il Mondo conobbe quel ragazzo che arrivava da una famiglia operaia protestante del Nord Irlanda e che aveva fatto ammattire i difensori di una squadra fra le più forti dell’epoca.

Lo strepitoso 1968 di Best si chiuse con “L’Equipe” che gli conferì il premio calcistico individuale più importante, il Pallone d’oro. In classifica ottenne 61 punti, staccando di otto punti il compagno di squadra Bobby Charlton e, di quindici, l’attaccante dello Stella Rossa, Dragan Džajić. Il mondo del calcio era ai piedi di quel ragazzino di appena 22 anni (e 7 mesi) che aveva fama, soldi, auto veloci, abiti costosi e donne. A volontà.

Ma l’astro di Best, dalla stagione successiva, iniziava un lento declino: complice anche uno United non all’altezza (il club di Manchester ottenne come miglior piazzamento due ottavi posti, non qualificandosi più per le coppe europee e retrocedendo in Second division), nel 1974 le strade del giocatore e dei Red devils si divisero: Best lasciava Manchester dopo undici stagioni con in dote due campionati, una Coppa d’ Inghilterra, due Charity Shield, una Coppa dei Campioni, 131 reti ed una maglia, la numero 7, che da allora venne data solo ai giocatori più forti e carismatici (Bryan Robson, Erik Cantona, David Beckham, Cristiano Ronaldo su tutti).

Il giocatore però iniziava a manifestare segni di insofferenza e di cattiva gestione del carattere (notti brave, ritardi e assenze agli allenamenti, troppa poca disciplina in campo) e iniziava ad alzare il gomito un po’ troppe volte.

Da allora e fino 1984, anno dei suoi addio definitivo al calcio giocato, Best giocò tra Sudafrica, Inghilterra, Repubblica d’Irlanda, NASL, Scozia e poi vere e proprie comparsate tra Hong Kong, Australia e altre squadre dilettantistiche inglesi.

Il giocatore, nel frattempo, fu anche commentatore tecnico della Nazionale nord irlandese ai Mondiali spagnoli, i secondi cui prese parte la Selezione britannica allora allenata da Billy Bingham.

Ma in quegli anni George Best sta diventando un alcolizzato cronico e la sua vita sentimentale andava a rotoli. Era un ex calciatore che trovava conforto solo con birre e superalcolici, dimenticato da tutti, dalle donne bellissime che ha fatto innamorare ai (presunti) amici che gli ronzavano intorno quando era famoso. Nel 1984 fu trovato in stato di ubriachezza alla guida della sua auto e fu incarcerato per quattro mesi, nel 2000 fu ricoverato per problemi al fegato e due anni dopo subì un trapianto. Nel 2004 dopo aveva già ripreso a bere ed iniziò ad avere allucinazioni, incubi e tremori improvvisi.

Il 2 ottobre 2005 venne ricoverato in terapia intensiva al “Cromwell Hospital”, per un’infezione epatica, morendovi cinquantaquattro giorni dopo.

Tre giorni prima della sua morte, quasi come un malinconico testamento, George Best diede l’autorizzazione al “News of the World” di fotografarlo con al naso un respiratore, la pelle ingiallita, gli occhi rossi e le occhiaie con l’intento di far capire ai giovani, e alle nuove generazioni, di non fare la sua fine, di non morire come stava facendo lui. Spirò il 25 novembre 2005 e le sue cornee furono donate.

La morte di George Best colpì molto l’opinione pubblica, non solo calcistica: un uomo distrutto dall’alcool fotografato sul proprio letto di morte, povero e lasciato al suo destino. Come a dire: fama e ricchezza non sono nulla se non sei un uomo forte.

La città di Belfast ancora oggi vive nel (e del) ricordo delle bombe dell’IRA degli anni 70 e del suo concittadino più famoso, il calciatore maledetto: dal 22 maggio 2006 esiste il “George Best Airport” (l’ex “Belfast City Airport”), molti murales hanno come soggetto l’ex numero 7 dello United, la sua abitazione è diventata un museo nostalgico e nel 2000 è uscito un cult movie della regista Mary McGuckian con John Lynch nella parte del (fu) “quinto Beatle”.

Ed invece nel cimitero della capitale nord irlandese, accanto al padre Dickie (morto tre anni dopo di lui) e alla madre Anne (morta ventisette anni prima a 56 anni per un problema vascolare legato, guarda caso, all’alcolismo) c’è il loculo che ricorda George Best, nato il 22 maggio 1946 e morto il 25 novembre 2005. Era un venerdì. 

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