Le storie, prima di tutto. Sì, i gol, le vittorie, i colpi di tacco e le rovesciate, ma a toccare le corde più intime del cuore dei tifosi sono le storie che accompagnano quel pallone che rotola sul prato verde. Storie e protagonisti. Storie, protagonisti e passioni, che dopo Maldini, Zanetti e Totti sembrano sempre più difficili da scovare.
Già, oggi si cambia maglia a suon di milioni e basta una doppietta come si deve a infiammare le folle, ma le bandiere sono tutt’altra cosa. Protagonisti, dicevamo, che se indossano i guantoni da portiere sono particolarmente accattivanti. Quello del portiere, infatti, è un ruolo di un’unicità incredibile che sprigiona fascino da ogni tuffo plastico. Se sbaglia un attaccante, qualche fischio e poco male: il 9 può rifarsi con gli interessi alla prossima azione.
Se invece, per esempio, un portiere sbaglia un’uscita in una semifinale di un mondiale giocato in casa sono dolori, specie se un attaccante tipo Caniggia la tocca di testa e la rete si gonfia. Spiace partire sempre da qui quando si parla di Walter Zenga e infatti da Napoli, stadio San Paolo, teatro dell’uscita a vuoto più dolorosa passiamo velocemente a viale Ungheria, Milano, dove l’Uomo Ragno ha imparato a rotolarsi e a volare per afferrare palloni vaganti. Da viale Ungheria a San Siro il passo è breve, al netto di una gavetta sempre utile in giro per l’Italia. Ed eccolo lì, Walter Zenga, a saltare insieme ai tifosi della Curva Nord – la sua Curva Nord – dopo aver buttato all’indietro la visiera del cappellino.
Erano i tempi dei grandi portieri italiani: Pagliuca, Tacconi, Marchegiani, Peruzzi, poco prima Giovanni Galli e Tancredi. Era una scuola d’eccellenza e se ci avessero detto a quei tempi che un giorno in Italia avrebbero spopolato i portieri brasiliani ci saremmo fatti grasse risate. Non si è abbattuto nemmeno dopo l’erroraccio a Italia ’90, Walter Zenga. Non ha mai chiesto scusa al popolo come si deve e per questo è stato criticato ma in lui c’era una caratteristica fondamentale che ogni portiere deve avere: l’animo leggero e sfrontato, quasi incosciente, che permette all’estremo difensore di ripartire con il sorriso anche dopo la papera più goffa. In questo senso il pensiero va, oggi, a Gigi Donnarumma, sedicenne fenomenino che Mihajlovic ha gettato nella mischia all’improvviso per difendere la porta del Milan. Si chiama Gigi, come Buffon, quello che tutti indicano come il miglior portiere della storia del calcio, uno che di elogi ne ha ricevuti a miliardi ma ha dovuto fare i conti anche con le critiche alle quali ha sempre risposto con portieristica leggerezza.
Come Zenga, anche Donnarumma è rossonero dentro e ha preferito il Diavolo all’Inter, perché al cuor non di comanda. Vola e ben impressiona il giovanotto che potrebbe diventare il portiere del Milan per i prossimi vent’anni, Mino Raiola permettendo. E’ il suo anno, potrebbe essere una storia bellissima. Lo attendiamo tutti al varco, o meglio alla papera clamorosa in cui tutti i portieri, prima o poi, incappano. Perché la differenza tra un buon portiere e un grande portiere è tutta lì, nelle spallucce sorridenti dopo l’errore e nella parata strepitosa pochi minuti dopo. In fondo, viene da pensare, la verità è che un portiere non deve mai prendersi troppo sul serio.