Chinaglia, il gigante simbolo della Lazio tricolore

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ChinagliaNon tutte le storie si compongono di inizio, svolgimento e fine; non tutte le biografie si esauriscono al nascita, vita, miracoli in certi casi, e morte, ci sono personaggi che intrecciano più vite, confuse in un garbuglio inestricabile che poi, alla fine, è la vita degli immortali. Immortali come Giorgio CHINAGLIA, immortale perché vincere uno scudetto alla Lazio non è come vincerlo a Milano o Torino, immortale perché uno come lui non era destinato ad essere “uno dei tanti” e Giorgio lo sapeva fin troppo bene, non ha mai mancato di farlo notare.

CHINAGLIA, UNO SCUDETTO CON LA MAGLIA DELLA LAZIO

Il carattere focoso è quello della Lunigiana operaia, nato il 24 gennaio 1947 a Carrara, viene presto lasciato alle cure della nonna in seguito alla partenza della famiglia per il Galles, dove il padre aveva trovato lavoro. Solo nel 1955, di fronte all’acquisita sicurezza finanziaria, Giorgio raggiunge padre, madre e sorella a Cardiff. Con quel fisico roccioso e quello sguardo rude, in Galles diventi un giocatore di rugby e a “Long John” la palla ovale non dispiace; poi a una certa età ti trovi a dover scegliere tra il calcio e il rugby, la scelta è ardua ma il sangue è italiano e a Chinaglia piace fare gol. Non solo gli piace, gli riesce. E se ne accorgono praticamente tutti. Anche al Cardiff City, il club principale, gli offrono un provino, un’occasione per entrare in squadra, una sola occasione: dentro o fuori. Una sola occasione? Dentro o fuori?

A Giorgio Chinaglia? No grazie, lui sceglie di giocare per lo Swansea. In quella città del Galles del Sud che da quelle parti chiamano ancora tradizionalmente Abertawe c’è una leggenda abertawyr che più abertawyr non si può: Ivor Allchurch, 23 gol nella nazionale gallese e leggenda dello Swansea. Ivor stravedeva per quel ragazzone italiano che si allenava con i vecchi della prima squadra, quando gli disse che un giorno sarebbe diventato famoso come Charlton, persino Chinaglia, uno che non si è mai posto limiti, abbassò la testa e rispose: “Lo dici solo per essere gentile”. Ma Allchurch ne era veramente convinto e lo difendeva strenuamente di fronte al presidente, stanco della sregolatezza del giovane. Eh sì, perché se come Giorgio Chinaglia hai una propensione naturale al vizio, le tentazioni sai trovarle anche nel tranquillo South Wales.

Tra multe e sanzioni, il presidente non ne può più delle intemperanze di Long John e lui torna in Italia con la famiglia, ripartendo dalle sue parti dopo aver lasciato la Gran Bretagna con una rete in terza divisione. A Massa le cose sembrano andare bene ma poi rispunta quel caratteraccio, quelle sue insofferenze che a 20 anni non era ancora capace di incanalare nel modo giusto. Dopo 5 reti in Serie C, la società lo cede all’Internapoli. Lui lo viene a sapere in caserma durante la leva militare e non la prende bene perché sperava in un interesse, suggeritogli, della Fiorentina. E invece è ancora Serie C, una categoria che dimostrerà andargli stretta: 10 gol il primo anno, 14 il secondo ai piedi del Vesuvio (dove ha trovato come compagno un roccioso e talentuoso terzino di nome Giuseppe Wilson, un anglo-partenopeo con un background simile al suo). L’uomo è sempre lo stesso, ma sa gestire quella sua instabilità emotiva trasformandola in un furore agonistico, in una rabbia positiva, in una tracotanza umorale unica. E così arriva la chiamata della vita.

NEL 1969 PASSA ALLA LAZIO

Nell’estate 1969, a 22 anni, passa, con Wilson (duecento milioni di lire il pacchetto), alla Lazio neopromossa in A e allenata da Toto Lorenzo, un argentino con la Lazio nel cuore nonostante una Coppa Italia vinta con la Roma: un grande conoscitore di calcio, uno stratega esperto ed intransigente, che aveva peraltro guidato l’Argentina nei Mondiali 1966 (distinguendosi più che altro per l’estrema ruvidezza nel gioco) e che negli anni successivi porterà l’Atletico Madrid in finale di Coppa dei Campioni. Don Juan non ha paura di lanciare i due giovani virgulti provenienti dalla gavetta nelle serie inferiori, intuisce il grande talento di Chinaglia nonostante il carattere spigoloso, ci crede, lo incoraggia, lo fa debuttare alla seconda giornata (sconfitta 1-0 contro il Bologna) e vede ripagate le proprie certezze a partire dal primo gol di Giorgione contro il Milan, il primo di ben 12 gol al debutto nella massima serie. Chinaglia è già un idolo, perché uno così o lo ami o lo odi (chiedere ai tifosi del Napoli, “feriti” dalle corna mostrate da Chinaglia, o ai tifosi romanisti che se lo sono visti esultare sotto la Sud durante un derby).

E appunto l’amore diventa a tratti odio nella seconda stagione, che rivede un Chinaglia arrogante, vizioso, appagato, spesso a muso duro con i propri tifosi che gli rimproverano la scarsa condotta della squadra, nonostante i suoi 9 centri, culminata con la retrocessione. Dalla Serie B arriva la svolta: in panchina arriva dal Foggia Tommaso Maestrelli, un genio di psicologia e umanità ben prima che di tattica. Maestrelli sfrutta al massimo e addirittura trae vantaggio dalle spigolosità dei componenti di uno spogliatoio diviso in fazioni ferocemente rivali, la cui supremazia la rivendica il clan capitanato da Chinaglia e Wilson (nel frattempo diventato un efficacissimo libero), due che non le mandano a dire. Ma la forza di quella Lazio sarà proprio in quella sana follia che permette ai biancocelesti di vincere la B nel 1972, sfiorare lo scudetto nel 1973 (terzo posto a due lunghezze dalla prima) e infine conquistare un clamoroso tricolore nel 1974, spezzando il quasi monopolio del Nord. In queste tre stagioni, Chinaglia segna rispettivamente 21, 10 e 24 reti.

Senza mai rinunciare alle proprie ataviche manie di protagonismo e ai comportamenti esuberanti, vantando una leadership che effettivamente deteneva ma che Maestrelli era abile a sottrargli. E’ di Giorgio Chinaglia dagli undici metri il gol-scudetto contro il Foggia e possiamo immaginare che tipo di festeggiamenti abbia preferito, lui così perfettamente calato negli eccessi, nelle contraddizioni e nelle tensioni della Roma degli anni ’70. Di fatto la sua carriera ce la ricordiamo tutti fino a qui, nonostante abbia segnato 14 gol anche nella stagione successiva, in cui la Lazio lottò per il titolo fino a che non fu diagnosticato un tumore al fegato a Maestrelli, costretto alle dimissioni. Il colpo è troppo duro: la Lazio non è più la stessa senza il suo grande condottiero, il gruppo del miracolo viene gradualmente smantellato e la Lazio torna alle stagioni di purgatorio del pre-Maestrelli.

NEL 1976 LASCIA LA NUMERO 9 A GIORDANO

Così nell’aprile 1976 Chinaglia lascia la sua numero 9 al giovane Bruno Giordano e vola per gli Stati Uniti per giocare a fianco di Beckenbauer, Carlos Alberto e, per sole due partite, Cruijff nei New York Cosmos, assecondando il desiderio della moglie americana Connie e per fare come il padre che si trasferì all’estero per accumulare quelle (modeste) ricchezze in grado di assicurare un futuro migliore alla propria famiglia.

Ecco, la famiglia di Chinaglia era la Lazio e lui stava diventando ricco per comprarsi la sua Lazio, in crisi e sull’orlo del baratro. Per questo nel 1983 lascia la sua villa in New Jersey e il campionato americano, dove aveva segnato 231 gol in 234 partite che però nessuno prenderà mai davvero sul serio, per diventare presidente della Lazio. Un’avventura che dura solo fino al 1985, quando cede le quote di maggioranza della Lazio dopo un periodo decisamente non fortunato e abbandona anche il timone, nel frattempo acquisito, dei New York Cosmos. Non abbandona però il calcio: negli anni successivi ricopre ruoli dirigenziali di Ferencvaros (in Ungheria), Marsala, Foggia, Lanciano e chiaramente Lazio. Tenta una nuova scalata ai vertici dei biancocelesti prima dell’avvento di Lotito, attirandosi procedimenti giudiziari e condanne varie, prima di spegnersi in Florida nel 2012 per andare a riposare a Roma accanto alla tomba del suo mentore Tommaso Maestrelli.

Una e più vite tra Galles, Italia e Stati Uniti, con tante soddisfazioni e diversi rimpianti; primo tra tutti la scarsa fortuna in azzurro, in cui si fa notare nel 1973 per il cross a Capello a Wembley (per la gioia dei “trentamila camerieri” come aveva titolato supponente il Sun, lui che cameriere in Terra d’Albione era stato da ragazzino nel ristorante che aveva aperto il padre) e per il vaffa in mondovisione a Valcareggi nei Mondiali 1974, al momento di lasciare il campo ad Anastasi, contro Haiti. E un grande immenso amore per la Lazio perché “Di Lazio ci si ammala inguaribilmente”. Long John dixit. Un campione destinato a gloria imperitura, immenso anche per i suoi difetti perché l’immortalità di un uomo sta anche nell’essere perfettamente immerso, simbiotico, nel proprio spazio e tempo; e Giorgio Chinaglia, i suoi basettoni, il suo sguardo fiero di cavallo imbizzarrito, con i suoi eccessi, le sue tensioni, le sue contraddizioni rimarrà sempre uno strepitoso poster dell’Italia degli anni ’70, così eccessiva, così tesa, così contraddittoria, così Chinaglia.