Calcio e business: ci piace o non ci piace?

Ormai il calcio è business, è ancora amore per il pallone?

Quante verità conosciamo sul calcio? Da “non è uno sport per ragazzine” a “non è una scienza esatta”, da “gol sbagliato, gol subito” a “quello lo segnavo anche io” e potremmo andare avanti fino all’infinito.

Sicuramente una vera verità sul calcio è che senza soldi non si fa calcio. O meglio, senza investire milioni di euro non si fanno squadre attrezzate per vincere e/o salvarsi.

Il calcio rimane sempre passione e tifo, ma con l’arrivo dei petrodollari e con un aggressivo brand management, unito a campagne di social networking avanzate, lo sport più amato del Mondo, in questi anni Duemila, è totalmente diverso da quello degli anni Ottanta-Novanta, considerato come il più bello e nostalgico di sempre. In meglio o in peggio, ovviamente in base ai punti di vista.

Sono lontani gli anni in cui negli stadi si “esibivano” i vari Anconetani e Rozzi oppure gli Agnelli e i Berlusconi che atterravano a Villar Perosa e a Milanello in elicottero. Ora le squadre hanno una sede in un luogo ma il presidente è da tutt’altra parte (leggasi Inter e Milan, ad esempio), oppure il presidente ha capito che nella città o nella zona dove “opera” la sua squadra di calcio è presente un bel bacino di business e ha deciso di interessarsi: leggasi gli sceicchi di Paris Saint-Germain e Manchester City, gli imprenditori Tacopina e Saputo con Bologna, Roma e Venezia oppure il “nostro” Zamparini partito dal Friuli e da quattordici anni a capo del Palermo. Non c’è da girarci tanto in giro: per molti presidenti (di qualsiasi campionato, a qualsiasi latitudine) la squadra di calcio è un bel giocattolino.

Oggi è tutto un altro calcio, come sono tutt’altra cosa gli ingaggi: se nel 1975 (nel pleistocene del calcio) fece scalpore l’ingaggio di Beppe Savoldi da parte del Napoli versando in tutto 2 miliardi di lire nelle casse del Bologna, questa estate ci siamo lasciati alle spalle le cessioni multimilionarie di Gonzalo Higuain e Paul Pogba, ultimi due trasferimenti sopra i centocinquanta miliardi di vecchie lire della storia del calcio (ed il francese è il secondo, dopo Gareth Bale, ad aver avuto una valutazione sopra i cento milioni di euro). Senza contare che si dice che il Paris Saint Germain abbia offerto, tempo fa, almeno 250 milioni al Barcellona per tesserare Lionel Messi.

Siamo alla follia? Forse si, forse no ma la spiegazione arriva dal fatto che i prezzi li fa il mercato, come un qualsiasi prodotto che troviamo in commercio. E ai tifosi questo piace da morire, soprattutto quelli che hanno presidenti molto magnanimi che investono vagonate di milioni per allestire squadre epiche.

C’è da dire che la presenza degli sceicchi ha dato un po’ di verve a squadre che erano delle nobili decadute, ma che grazie ai cosiddetti “petrodollari” sono arrivate a vincere titoli nazionali e a fare (più o meno strada) in Europa: il PSG ed il Manchester City da spettatrici del calcio europeo fino a dieci anni fa, ora si trovano a competere nell’elite del calcio europeo. Ma possiamo anche parlare delle tedesche che vivono ancora di luce propria grazie ai ricavi del Mondiale casalingo di dieci anni fa e che hanno degli stadi fantastici. E non a caso grazie alla loro forza (sul campo) ci hanno tolto un posto in Champions League.

E le italiane? Salvo qualche sporadico caso, le nostre hanno ancora presidenti italiani che nelle squadre buttano tanto amore (e tanti soldi) per allestire rose all’altezza della situazione. Le uniche squadre italiane ad avere presidenze straniere sono le due milanesi, la Roma ed il Bologna in Serie A ed il Venezia in Lega Pro: figurarsi se negli anni in cui le italiane dettavano legge in Europa si sognava di avere da noi presidenti stranieri. E non a caso sono quasi vent’anni che non vinciamo più una Uefa/Europa League e negli anni Duemila abbiamo vinto solo tre volte la Champions League su sedici edizioni.

Poi ci sono le isole felici come il Sassuolo che quattordici anni fa perdeva i play out in Serie C2 contro l’Imolese e giovedì ha pareggiato a Vienna in Europa League, vincendo 0 a 2 fino al minuto 85. Ed il presidente del club emiliano non è uno sceicco o un magnate, ma un imprenditore (Giorgio Squinzi) con il fiuto degli affari e che in pochissimi anni ha reso la squadra neroverde una bella realtà del nostro calcio fatta dalla quasi totalità da giocatori italiani e con uno stadio di proprietà, anche se a 25 km da Sassuolo. Tanto per intenderci, il Sassuolo (al quarto campionato in massima serie) ha un suo stadio mentre le squadre di Milano e Roma devono pagare un affitto ai rispettivi Comuni. Così come il Napoli, le due genovesi, il Torino, la Fiorentina etc etc. Tutti gli stadi inglesi e spagnoli sono di proprietà e tra pochissimi anni partiranno i lavori multimiliardari per migliorare il Nou Camp ed il Bernabeu, mentre da noi solo tre squadre hanno un proprio stadio (Juve, Udinese ed il già citato Sassuolo). Loro sono avanti, noi rimaniamo indietro, visto che si parla da anni di stadi di proprietà per Milan, Inter, Roma e Lazio e queste continuano a giocare al “Meazza” e all'”Olimpico”.

Ma il calcio moderno è fatto di diritti televisivi, stadi avanzati sempre sold out (una cosa impensabile da noi), magliette di calciatori vendute a ritmo frenetico, merchandising che si vende da solo in giro per il Mondo. E pensare che una volta il tifoso italiano si accontentava della radiolina allo stadio e di tornare a casa per vedere in tempo “Novantesimo minuto”. I tempi sono cambiati, il Mondo è cambiato, il calcio è cambiato. E sul discorso “ricavi dai diritti televisivi” o di “ricavi da passaggi dei turni in Champions” si potrebbero scrivere tesi di laurea: non partecipare alla fase a gironi della coppa dalle grandi orecchie può inficiare il bilancio di una squadra mentre andare il più avanti possibile portata a rimpinguare le casse e poter guardare al futuro con meno ansia (e magari con qualche coppa in più in bacheca).

Sarà sempre peggio o sarà sempre peggio? Ai posteri l’ardua sentenza. Sperando che i tifosi non smettano di andare allo stadio, la loro “casa” che non dovrebbe mai essere sostituita da un divano e da un telecomando.