Caldogno, Via Marconi 3, alle ore 18:15 di una fredda sera d’inverno di appena 47 anni fa nasceva un esteta del gioco del pallone, Roberto Baggio. Arte e popolo, due argomenti spesso lontani tra loro che si fondono in un rettangolo verde lungo 100 metri. Baggio fece della sinuosità la sua arma vincente, ancor prima che con il pallone dribblava con il corpo, e con il suo mitico codino che nelle onde ricreate dalla corsa anticipava i dribbling e le finte di Roberto. Come coloro che entrano nella leggenda Baggio ha avuto una carriera, altalenante, costellata da infortuni e da mister che poco lo hanno compreso. Fu il vagabondo tra la provincia e la metropoli italiana, ma dovunque andò insegno a giocare al calcio.
L’ultima parabola l’ha dispensata a Brescia, dove forse veramente si è elevato a ruolo di divino del pallone. Ha vinto tanto, ha riportato la Gioconda, o meglio il Pallone d’Oro, in Italia dopo tanto tempo. Ha sbagliato nei momenti decisivi ed ha saputo riprendersi dopo le critiche della stampa e le lacrime americane degli italiani. Grande uomo prima che fenomeno dell’attacco, ha mostrato il suo lato umano, diventando immortale nel ricordo di chi ama questo sport. Fantasia pura, aldilà della maglia o delle botte alle ginocchia. Numero 10 vero di quelli che non nasceranno più, almeno non nell’ideale dei malinconici calciofili.