L’arte del pallone: Simone Ferrarini (Collettivo FX), il tifo e la sua Reggiana

Simone Ferrarini, ideatore del Collettivo FX, ci ha raccontato il suo amore per calcio, entrando dentro al rapporto strettissimo con tifo e con la sua Reggiana, squadra per la quale ha disegnato diverse coreografie.

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Simone Ferrarini (Collettivo FX): il calcio e la passione che diventano cultura (o forse già lo sono)

Simone Ferrarini è uno street artist emiliano, reggiano per la precisione, che ha coniugato perfettamente l’amore per la propria città e la sua storia con la sua arte. Il calcio si trasforma in opera, nel concetto più concreto del termine, vestita di quei concetti cardine di appartenenza, identità e aggregazione, tanto cari all’artista. Una storia che nasce dal 1992 – con i primi disegni dei gol su Il Resto del Carlino – e si muove sino alle ultime coreografie portate in curva dai supporters reggiani. Ferrarini ci racconta la sua storia, il suo rapporto con la città, con lo sport e con la sua Reggiana.

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Che rapporto c’è tra il calcio e il tuo modo di fare arte?

“C’è un rapporto tra ciò che faccio e la città; essendo il calcio una componente importante di quest’ultima, diventa inevitabile. Il mio è un legame diretto con le comunità, con l’identità, con l’aggregazione, non prettamente con il calcio in sé. Difatti, il tifo, quello che sta sugli spalti e non sui divani, è il tra i principali luoghi culturali e di incontro delle città”.

In che modo racconti il calcio?

“Dal punto di vista storico-popolare. Il calcio è un patrimonio che noi, come cittadini e persone, abbiamo. Raccontando quel pezzo di storia, il calcio ci finisce dentro, in modo inevitabile”.

Quanto il calcio incide su una città?

“Se parliamo di calcio di provincia, escludendo le grandi squadre, passando dalla A alla Promozione, è lo spazio di aggregazione più attivo che c’è nelle città. Nel tifo c’è condivisione, c’è passione, c’è identità, c’è memoria storica, ma, soprattutto, non c’è classismo, non c’è divisione sociale e non ci sono ricchezza e povertà. Questo è fondamentale per un città”.

Quando hai cominciato a raccontare la Reggiana?

“Il mio primo lavoro è stato nel 1992. Ho cominciato disegnando i gol della Reggiana per Il Resto del Carlino. C’era soltanto Novantesimo Minuto e, spesso, accadeva che le partite di B non venissero mandate. La gente, dunque, guardava, oltre che dal vivo, le reti disegnate sui giornali. Ho fatto anche qualcosa della Nazionale e del Bologna. Il mio primo gol disegnato è stato in un Reggiana-Inter di Coppa Italia, rete di Totò De Falco”.

Qual è il tuo rapporto con la Reggiana?

“La Reggiana, per me, è Reggio: appartenenza viscerale. È qualcosa che ti porti ovunque, come se fossi sempre in debito rispetto alla mia città; è un mio modo per sdebitarmi per quanto lei mi ha dato”.

Quante l’arte è importante per rappresentare il calcio?

“Noi stiamo vivendo un paradosso se parliamo di Pasolini, De André, Carmelo Bene, Pertini, personaggi non solo appassionati del calcio come sport, ma appassionati del calcio come rito popolare. Adesso è il contrario e non si capisce per quale motivazione. Un patrimonio popolare, culturale, come il calcio, che viene solitamente a distanza dall’arte, è qualcosa di incomprensibile. Non capisco il motivo. Io faccio parte dei gruppi organizzati e mi accade di essere guardato male per questo”.

Quanto il calcio, invece, ha bisogno dell’arte?

“Il calcio, quello che sta in campo, avrebbe bisogno dell’arte per capire come va il mondo. Chiaro che il sistema attuale è gestito da persone non hanno idee di cosa sia la realtà, soprattutto dal punto di vista delle risorse umane – calciatori, società. Alcuni dovrebbero capire, tramite la cultura, che il mestiere che fanno è legato a qualcosa di concreto e non di astratto. Da un punto di vista del tifo, l’arte è un patrimonio. Il tifo fa tanta cultura. Forse è più l’arte ad aver bisogno del tifo, che potrebbe sfruttarla a proprio favore”.

E pensi che, dunque, questa eccessiva ridondanza e “presa sul serio” del racconto calcio possa essere negativa?

“Se tu hai Brera, Pasolini, Bene, il mondo deve responsabilizzarsi. C’era un confronto, una presa di responsabilità che al momento non c’è. Questo vale anche per un certo tipo di giornalismo. Una diversa cultura responsabilizzerebbe il calcio, che ne avrebbe davvero bisogno. Servono meno venditori di spot pubblicitari”.

Come si crea una coreografia?

“La mia è una piccola parte. Ideare una coreografia è un processo lunghissimo. Cosa fare contro il Parma, il Sassuolo, è un lavoro enorme, ma facilissimo. Il tifoso è pronto e sa quel che deve costruire. Io mi sono trovato a fare un lavoro di gestione, di traduzione di certi contenuti, che una qualità altissima. Il mondo del tifo, considerato basso, è tutt’altro. Ha molta cultura, molta consapevolezza. Entra in un sistema più complesso. In una coreografia fatta per Reggiana-Parma si è subito parlato di storia nel processo di creazione. Al tavolo c’era il magazziniere piuttosto che il grande avvocato del foro. Tutti nella stessa direzione: la storia doveva essere la principale protagonista della coreografia; da lì si è tirato fuori il personaggio di Matilde di Canossa. L’hanno tirato fuori loro. I complimenti vanno a loro, non a me. Contro il Sassuolo, invece, abbiamo sollevato il problema dei soldi, perché i tifosi hanno ben chiaro il problema del sistema economico. I contenuti sono loro ed è impressionante, io ci ho messo soltanto la forma. La società sportiva rappresenta la città, il gruppo organizzato, senza passare dalla prima, rappresenta la città in egual misura. Reggio Emilia è rappresentata dalla Reggiana e dalla tifoseria, che non passa dalla squadra, ma la responsabilizza e ha la sua responsabilità rispetto alla città, alla sua storia, al valore delle rivalità, sempre nel rispetto dello sfottò. L’ironia è un patrimonio italiano”.

La cultura si interesserà del calcio, prima o poi?

“Se non vuol fare la fine che sta facendo, alla stregua della nicchia e di gente annoiata, alla cultura farebbe bene ad interessarsi al calcio e al tifo. L’occasione e lo spreco sono della cultura e non del calcio”.