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10, il numero “perfetto” del calcio

Lionel Messi

Numero 10

Il dieci in matematica è un numero pari, un numero triangolare ed un numero felice; a scuola chi prendeva dieci era considerato un “secchione” (anche se chi lo derideva sperava un giorno in cuor suoi di prenderlo anche lui); nella Smorfia napoletana il dieci sono i fagioli, mentre nella filosofia pitagorica il dieci è considerato il numero perfetto. Nel calcio, si trasforma in un numero cardinale, 10, diventando quello più ambito, ma non per tutti in quanto rappresenta il numero del fantasista e del giocatore più forte della squadra. Sui numeri 10, i tifosi di tutti il Mondo e di tutte le epoche si dividono su chi sia stato, o su chi è, il più forte della Storia del calcio.

Il primo numero 10 con cui i bambini nati negli anni Settanta ed Ottanta hanno avuto a che fare è stato un cartone animato, sulle spalle di Oliver Hutton, il talentuoso e fortissimo ragazzino protagonista dell’anime “Holly & Benji”, prototipo del calciatore completo dotato di una corsa pazzesca, numeri da circo, palloni che si infuocavano quando calciava in porta (e che diventavano ovali per la forza) e spalti pieni per veder giocare il bambino super star della Newppy, della New Team e del Giappone Campione del Mondo Under 15.

Ma se Holly è stato un cartone, quindi finzione, il numero 10 in sé è il sogno di chiunque giochi a calcio e giochi nei ruoli di movimento offensivi. Chi indossa quel numero è di norma il più dotato di talento, quello con più leadership, l’idolo delle masse, colui capace di cambiare il corso di un match solo con una sua giocata.

10, IL NUMERO DI PELE’

Non appena si pensa al “10” si pensa al Sudamerica e subito viene alla mente il più celebre calciatore della storia, Pelé. Nato Edson Arantes do Nascimento, Pelé è considerato il più grande calciatore di tutti i tempi: oltre milleduecento reti segnate in carriera, unico giocatore a vincere tre Campionati del Mondo, recordman di marcature segnate nelle finali dell’allora Coppa Intercontinentale (sette), tutte con le maglie della sua squadra, il Santos, nonché da oltre quarant’anni primatista di reti segnate con la maglia verdeoro della Seleçao. Parlare di Pelé significa parlare di un calcio in bianco e nero che ha ispirato tutti i ragazzi che da piccoli sognavano di diventare calciatori: velocità, abilità tecnica fuori dal comune, gol sensazionali (chiedere a Tarcisio Burnich nella finale di Messico ’70) e velocità, potenza ed un fiuto del gol da vero uomo d’area. Un esempio per tutti con la pecca di non essersi mai spinto a giocare in Europa, per chiudere la carriera nello scarso, ma milionario, campionato NASL. Ma tant’è.

Il Brasile è riconosciuto da sempre come terra di giocatori funambolici, di cui l’erede designato di Pelé è stato Arthur Antunes Coimbra, ai più noto come Zico. Massimo esponente di quella covata di giocatori brasiliani cresciuti a pane e…Pelé, Zico è considerato uno dei grandissimi del calcio mondiale grazie al suo innato talento e alla sua tecnica sopraffina. Leader di uno dei Brasile più forti, ma sfortunati, di sempre (stadio “Sarria”, Italia-Brasile e la tripletta di Paolo Rossi), lo hanno fermato il fisico minuto rispetto ad o’Rey, ma a differenza del campionissimo del Santos, ha cercato fortuna anche al di là dell’Atlantico, giocando per due stagioni in Europa nella piccola Udinese con al fianco il connazionale (ed altrettanto forte) Edinho. E se Zico è andato a giocare ad Udine lo deve anche alle “intemperanze” dei tifosi bianconeri che minacciarono la secessione dall’Italia se non fosse arrivato il campione di Rio de Janeiro a vestire il bianconero friulano. Grande rifinitore e abile nelle punizioni, Zico ad oggi è considerato uno dei giocatori più forti di sempre, tanto che nel marzo 2013 il Flamengo (dove ha militato per sedici anni) gli ha posto una statua davanti alla sua sede. Anche anni fa la squadra dei Kashima Antlers, dove l’attaccante giocò ed allenò, gli eresse una statua ad altezza naturale. Una cosa per pochi, solo per numeri 10.

Parlando di numeri 10 e di talenti puri, l’Argentina ha dato i natali al dies per eccellenza, Diego Armando Maradona, la nemesi di Pelé. Riconosciuto, alla pari del classe ’40, come il giocatore più forte della storia del calcio, Maradona già da bambino aveva le stimmate del campione, tanto che a diciotto anni era già considerato una promessa del calcio: in un’intervista disse che il suo sogno sarebbe stato quello di partecipare ad un Mondiale e di vincerlo da protagonista. Detto, fatto visto che da solo (grazie alla sua tecnica e alla sua capacità di visione del gioco) vinse la Coppa del Mondo in Messico nel 1986, con il gol all’Inghilterra considerato quello più bello della storia (partenza da oltre metà campo, scartamento di quattro avversari e rete lasciando per terra il portiere avversario). Ma il nome di Maradona è legato al Napoli, la squadra che lo ha visto idolo indiscusso ed idolatrato dal 1984 al 1991: due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana ed una Coppa Uefa sono il suo lascito alle prossime generazioni di tifosi partenopei che ancora oggi vedono nel pibe de oro il giocatore che ha permesso alla città di san Gennaro di riscattarsi a livello nazionale ed infastidire, per qualche stagione, le ricche squadre del Nord nella lotta alla vittoria del titolo nazionale. Giocatore di una classe e di una tecnica senza eguali, dotato di leadership indiscussa e gesta che ancora oggi fanno scuola, ha avuto molti problemi extra-calcistici che lo rendono (a torto o ragione) un idolo per le prossime generazioni.

Erede designato di Maradona è Lionel Messi. Classe 1987, canterano della Masia, rappresenta l’universalità del Barcellona e con la maglia blaugrana ha vinto tutto il vincibile, tanto da segnare 425 reti in maglia catalana in dodici anni di professionismo e vincendo ben quattro Palloni d’oro, impresa mai riuscita finora a nessuno. Massimo esponente di una nouvelle vogue di numero 10, di Messi si è scritto e detto di tutto: è il giocatore più forte di questo scorcio di XXI secolo, segna con regolarità (viaggia ad una media di 1.18 gol a partita) ed in due occasioni ha anche segnato à la Maradona (un gol di mano, un gol da centrocampo), ma per entrare nel novero dei grandi del pallone non gli resta che vincere la Coppa del Mondo. E sicuramente in Russia, tra due anni, quando avrà 31 anni, farà di tutto per alzarla. Con la fascia di capitano al braccio, come feceDieguito a Città del Messico all'”Azteca”.

Poco ricordato nel novero dei grandi numero 10 del calcio, ma dotato di una classe imponente, è Enzo Francescoli, el principe. Uruguaiano di Montevideo, ha indossato in poche occasioni la maglia più “pesante”, ma in campo era un numero 10 a tutti gli effetti. Ha militato in Italia dal 1990 al 1994, vestendo i colori di Cagliari e Torino. Zero titoli per lui nel Belpaese, ma ancora oggi i tifosi del Cagliari, in particolare, si ricordano le giocate del talento sbocciato nel River Plate e che con la seleccion Celeste ha vinto, in dodici anni, tre Cope America ed una volta si è classificato secondo.

Ma è in Europa che il numero 10 ha toccato apici da cinema

In Portogallo, il primo Paese europeo che si incontra navigando l’Atlantico, ha da sempre “problemi” nel reparto offensivo, ma ha una vera storia di numeri 10: dalla “pantera nera” Eusebio, trascinatore del Portogallo terzo al Mondiale ’66 e del Benfica due volte consecutive Campione d’Europa e Pallone d’oro 1965, a Paulo Futre, massima espressione del calcio lusitano anni 80 che avrebbe avuto una carriera più fulgida se non avesse subito troppi infortuni, a Manuel Rui Costa, il geometra del centrocampo di Fiorentina e Milan.

Se la Spagna non è mai stata foriera di numeri 10, al contrario la vicina Francia ne ha regalati al calcio mondiale due di un certo spessore, Michel Platini e Zinedine Zidane.

Francese con nonni novaresi, le roi Platini è stato il giocatore più forte che l’Europa abbia dato al calcio. Cresciuto nel Nancy ed esploso successivamente nel Saint Etienne, dopo il Mondiale ’82, portando la Francia al 4° posto, è approdato alla Juventus dove in cinque stagioni vinse tutto quello che ci fosse da vincere, compresi tre Palloni d’oro consecutivi. Platini è stato poesia, un quadro dipinto da un pittore con un tocco di genialità, come quello che metteva lui in campo. Goleador implacabile, è stato l’emblema di una Francia che ha espresso il più bel calcio d’Europa fra il 1982 ed il 1986, con in mezzo la vittoria dell’Europeo in casa (nel 1984), con il numero 10 transalpino capocannoniere con 9 reti, record mai più eguagliato, ed un quarto ed un terzo posto mondiale. E non appena Platini si è ritirato dal calcio giocato (1987), la Francia ha dovuto attendere undici anni per tornare a vincere qualcosa. Platini ha avuto recentemente molte vicissitudini legate ad una tangente intascata da presidente della UEFA, chiudendo in malo modo la sua carriera da dirigente calcistico.

Se Platini pennellava, Zinedine Zidane ballava con il pallone tra i piedi. Fantasista fantasioso, con la Juventus ha vinto molto (ma non tantissimo), ma è con la Nazionale blues che è ricordato per i successi: leader della Francia campione del Mondo e d’Europa tra il 1998 ed il 2000, Zidane con il numero 10 sulle spalle ha fatto vedere cose magistrali. Da libro. E non a caso ha vinto il Pallone d’oro proprio nell’anno top della sua carriera (il 1998). Originario dell’Algeria, Zidane è stato prima il leader del “Bordeaux dei miracoli” finalista in Coppa UEFA nel 1996 per poi sbarcare a Torino dove il suo conterraneo Platini ha fatto la storia. Su Zidane hanno pesato, e non poco, alcune intemperanze in campo che gli sono costate molti cartellini rossi. Dal 4 gennaio è il tecnico-traghettatore del Real Madrid dopo l’esonero di Rafa Benitez. E “Zizou” ha fatto tante cose anche con la camiseta merengue, vincendo anche una Champions nel contesto deigalacticos dove indossava la maglia 5, la metà della 10, ma con Zidane i numeri sono solo numeri. Per il resto, lui metteva la classe. Ah, Zidane ha chiamato suo figlio come Francescoli. E ora il diciottenne Enzo si trova nella posizione di essere figlio di un numero 10 chiamato in onore di un altro numero 10.

Di notevole spessore è stato un altro numero 10 che, nonostante la poca mediaticità, ha scritto la pagina del famoso calcio ungherese degli anni Cinquantanta, Ferenc Puskas. Giocatore dalla classe innata e fantasista “di diamante” della Aranycsapat e poi bomber implacabile della Honved e del Real Madrid, tanto da essere ancora l’unico giocatore a segnare quattro reti in una finale di Coppa dei Campioni. Leader, assist man e tanta fantasia nel primo vero numero 10 europeo nel periodo post-bellico.

Degni di nota sono stati altri numeri 10 europei: da Lothar Matthäus (leader dell’Inter dei record del “Trap”, campione del mondo in Italia e nello stesso anno Pallone d’oro), a Dejan Savicevic (massimo fantasista espresso dal calcio ex jugoslavo di fine anni Ottanta inizio Novanta, prima con la Stella Rossa e poi con il Milan, chiamato non a caso “il genio”), a Gheorghe Hagi, il “Maradona dei Carpazi” con due stagioni in Italia nel Brescia e per sei volte miglior giocatore rumeno.

Ed in Italia? Un po’ per partigianeria, un po’ perché è vero, nel nostro Paese i numeri 10 si sono sprecati non perché (solo nel calcio) il tifoso italiano è nazionalista, ma perché nel nostro Paese i numero 10 sono stati tanti: da Omar Sivori a Gianni Rivera, da Roberto Baggio a Roberto Mancini, da Alessandro Del Piero a Francesco Totti solo per citare quelli più rappresentativi.

Italia e numeri 10, un legame iniziato negli anni Trenta con Giuseppe Meazza. Idolo dell’Ambrosiana Inter degli anni Trenta, ha vinto due Mondiali e fece impazzire i tifosi di quel calcio che usciva piano piano dall’era dei pionieri. Numero 10 ante litteram con licenza di fare gol.

Gli anni Cinquanta sono stati di Omar Sivori, sebbene sia di nascita argentina. Detto el cabezon, è stato un bad boy pre-bad boy, uno che giocava con i calzettoni abbassati perché a lui non piacevano le regole. Ha fatto sognare la Torino bianconera ed il Napoli del “petisso” Pesaola, facendo impazzire le difese avversarie. Talento che, come si dice, “poteva dare di più” ma quello che ha fatto è stato comunque molto. Primo Pallone d’oro italico, è stato uno dei tre “angeli con la faccia sporca”, ma l’unico con il 10 sulle spalle.

Gli anni Sessanta, invece, sono tutti di un ragazzino che debuttò 15enne in A con la maglia grigia dell’Alessandria. Si chiamava Gianni Rivera e fu chiamato prima golden boy e poi abatino da Gianni Brera. Rivera è stato per anni il giocatore più forte del calcio italiano, avendo vinto tutto con il Milan, di cui fu per decenni il capitano e la Bandiera con la B maiuscola. Regista, rifinitore, bomber dal fiuto del gol implacabile, un esempio per tanti giovani calciatori dell’epoca e uomo-poster nelle camere delle ragazzine.

Gli anni Ottanta sono stati gli anni di Roberto Mancini. Marchigiano di Jesi, debuttò in Serie A nel Bologna a 17 anni, ma è nella Sampdoria che si fece conoscere al grande calcio come uno dei migliori fantasisti nostrani. A fianco del “gemello del gol” Vialli (un numero 9 che ben si accoppiava in campo con il 10 del “Mancio”), ha scritto le pagine più belle della storia del club blucerchiato, dallo scudetto alla sfortunata finale di Coppa dei Campioni a Wembley. Numero 10 in campo e fuori, univa leadership con tocchi di sinistro e colpi di tacco epici. La sua abilità in campo l’ha portato ora ad essere un allenatore vincente (come mentalità). Ma in campo uno della classe del “Mancio” manca come il pane.

Negli anni di Mancini un bel numero 10 fu Ruud Gullit, uno dei tre “tulipani” che Berlusconi portò a Milanello per rendere il Milan la squadra più forte del Mondo. Impresa riuscita anche con l’apporto del baffuto e capelluto giocatore Pallone d’oro 1987 originario del Suriname e Campione d’Europa con gli oranje l’anno successivo.

Gli anni Novanta sono gli anni di Roberto Baggio, il più forte giocatore italiano di tutti i tempi. “Divin codino”, “Raffaello”, “coniglio bagnato” sono stati i soprannomi che lo hanno accompagnato per tutta la sua carriera, iniziata nella natia Vicenza per poi far impazzire i tifosi di Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia dove, al suo addio al calcio, nessun altro giocatore ha indossato la numero 10, proprietà di Baggio per quattro stagioni. E’ stato unensemble di musica tradotto in gioco, finte, punizioni, dribbling. Con la Juventus si è imposto al Mondo vincendo anche il Pallone d’oro nel 1993 e se non avesse sbagliato il rigore a Pasadena l’anno dopo, avrebbe fatto la doppietta. Opache le stagioni milanesi, mentre è in provincia che Baggio ha fatto cose molto importanti: con il Bologna, nella stagione 1997/1998, segnò ben 22 reti in trenta partite di campionato e a giugno partì per il Mondiale francese dove si alternò in campo con un Alessandro del Piero non del tutto informa, mentre a Brescia portò i lombardi a giocarsi l’Europa, arrivando a disputare la finale di Coppa Intertoto nel 2001 contro un PSG più esperto a livello europeo.

Difficile trovare il suo gol più bello: in campionato, è celebre quello segnato alla Juventus con la maglia delle “rondinelle” dopo un grandissimo stop di piede a ridosso dell’area, mentre in Nazionale la rete contro la Cecoslovacchia ad Italia ’90 è una di quelle più indelebili.

Contemporaneo di Baggio è stato Gianfranco Zola. Sardo di Oliena, ha giocato nel Napoli post-Maradona (quindi post-10) facendo vedere sprazzi di grande classe. Classe che poi ha esportato a Parma per tre anni , per poi andare nel Chelsea “degli italiani” pre-Abramovich, diventando prima “magic box” e poi il giocatore più forte di sempre dei londinesi.

Gli anni Novanta hanno visto l’esplosione di Alessandro Del Piero, veneto come Baggio e che anche lui ebbe nella Juventus il suo trampolino di lancio verso il calcio che conta. Ma se con il “divin codino”gli anni juventini sono stato solo cinque, del Piero ha debuttato nel 1993 e la sua ultima partita con la maglia dei torinesi è stata il 20 maggio 2012: 705 partite, 290 reti, undici anni come capitano, tanti trofei ma nessun Pallone d’oro. Ha vinto (abbastanza) da protagonista il Mondiale 2006, manifestazione che Baggio ha solo accarezzato nella torrida estate di Usa ’94. Del Piero è stato prima “Pinturicchio” per poi diventare “Godot” dopo il grave infortunio del 1998, sempre grazie al munifico (nei soprannomi) avvocato Agnelli. Del Piero è stato l’emblema del numero 10, ereditato da Baggio e tenuto dal 1995 fino alla parentesi australiana ed indiana. Dopo il suo addio, la Juventus non assegnò la maglia appartenuta in passato a Sivori, Platini e Baggio. In seguito fu data prima a Carlos Tevez ed ora a Paul Pogba, due giocatori forti ma lontani dall’ideale di numero 10. Amato da tutti gli juventini di ogni età ed epoca, del Piero è stato un esempio di correttezza ed attaccamento alla maglia.

La lista dei numero 10 storici italiani si chiude con Francesco Totti. Core de Roma e romanista puro sangue, debuttò in Serie A a 16 anni con Boskov legando sempre il suo nome alla sua Roma, per la quale ha giurato eterno amore anche a fronte di ricchissimi contratti che gli sono stati offerti dalle squadre del Nord e del resto d’Europa. Alla soglia dei quarantanni, Totti è ancora il faro della Roma e tutti i tifosi già tremano alla notizia data dalla moglie che questa possa essere l’ultima stagione da calciatore. Numero 10 in Germania, non ha vinto nulla a livello europeo ma la sua bacheca vede lo scudetto del 2001 (oltre a due Coppe Italia e ad altrettante Supercoppe), che a Roma vale quanto dieci titoli vinti con altre squadre. Nato centrocampista (come del Piero), con gli anni la sua posizione si è fatta sempre più avanzata, tanto da arrivare a segnare 300 reti con la maglia della Lupa. Meno fantasista, ma più assist man e finalizzatore: un mix letale per il “pupone”, noto anche per il suo celebre “panenka” (o cucchiaio), il rigore con scavetto degli Europei 2000.

In Europa, come nel Mondo, gli anni Dieci del Duemila hanno visto un nuovo tipo di numero 10, anche perché il calcio di oggi è diverso da quello passato: più corsa, corpi più tonici, giochi di prestigio quasi per sfottere l’avversario e molta, troppa, disinvoltura nel cambiare casacche.

Come la Storia calcistica dimostra, il numero 10 non è per tutti, non è una maglia da indossare tanto per indossarla. Dietro quel semplice numero c’è passione, sudore, grinta, fango e l’amore per il gioco del calcio. E’ un numero da romanzo, un numero magico che pochi hanno il privilegio di avere perché comporta anche la dedizione al “mestiere”. Il 10 è eleganza, precisione, spettacolo, significa essere fuori dagli schemi, significa essere un talento allo stato puro.

Altri giocatori della storia del calcio avrebbero meritato la maglia più ambita: da Alfredo di Stefano a George Best, da Johan Cruijff ad Eric Cantona, da Cristiano Ronaldo a Xavi o Andres Iniesta, per non parlare di Kakà, Zlatan Ibrahimovic ad Andrea Pirlo ed un domani ai nostri Lorenzo Insigne e Marco Verratti.

Ma oggi, nel Mondo del calcio, giocatori come i numero 10 fin qui analizzati non nasceranno più.

Qualcun’altro forse si avvicinerà alle gesta dei precedenti, ma i Campioni con la C maiuscola nascono uno su un miliardo. E quei pochi che hanno fatto storia non dovranno mai essere dimenticati.

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